Le dimissioni di Franz Xaver Ohnesorg


Ricordiamo che F.X.Ohnesorg, sovrintendente della Philharmonie e dei Berliner Philharmoniker, dal 1° settembre 2001, a rilasciato le dimissioni nel settembre 2002.

Aldilà dell'episodio, queste dimissioni pongono il problema difficile del management culturale edell' avvenire della musica classica nel panorama culturale odierno


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Attualità (in italiano)

Editoriale

Novembre 2002

Cultura o saponette

Della gestione odierna della musica classica

Cultura o saponette


Le recenti dimissioni di F.X Ohnesorg, aldilà dei motivi contingenti che ci hanno portato pone al mio parere un problema ben più importante sulla situazione fatta oggi alla musica classica, sul modo in cui sono guidate le istituzioni culturali, sul senso di una politica culturale..

F.X Ohnesorg era il Sovrintendente dei Berliner Philharmoniker, ed è il successore di Elmar Weingarten, che diede anche lui le dimissioni. La sua Opera Magna è la trasformazione della struttura « Orchestra Filarmonica di Berlino » dipendente dal Senato di Berlino in una Fondazione di diritto privato, come si è fatto altrove (in Italia ad esempio con quasi tutte le grandi istituzioni musicali).

Ma i Berliner Philharmoniker costituiscono un’oligarchia dove il potere è condiviso tra un’orchestra onnipotente e gelosa delle proprie prerogative, un direttore artistico e musicale anche lui onnipotente, e il Sovrintendente. Ai tempi di Karajan e anche di Abbado, l’intendente era la terza persona dei triumviri: Ohnesorg è apparso volente nolente come quello che voleva diventarne la prima. Da cui nacque un conflitto di potere e di competenze che ha portato alla situazione che conosciamo.

Benché si ironizzi spesso sulle pretese dei Berliner (ma si potrebbe anche dire lo stesso, e anche di più, sui viennesi), mi pare sano che l’orchestra sia al centro del potere, sia per la scelta del direttore artistico che per le scelte strategiche. Troppo spesso le orchestre vengono considerate una massa da guidare, e da consultare per ultima, e si vede dove questo tipo di politica ha potuto condurre, ad esempio in Francia attualmente con l’Orchestre de Paris, qualche anno fa con l’Orchestre National de France. La politica di Stato in materia è spesso dipendente di criteri non artistici, di equilibri politici da rispettare, di favori da distribuire. Si sono visti i risultati in Francia con le tribolazioni dell’Opéra Bastille, in Italia con le eterne battaglie attorno all’Opera di Roma oppure recentemente all’Auditorio di Renzo Piano, in Austria a Salisburgo o a Vienna, ed altrove…..

A Berlino, il problema era particolarmente semplice. Si trattava di rispondere alla domanda: “chi decide?”. L’orchestra ha sentito il potere scappare e lo ha fatto sapere. Il Direttore Sir Simon Rattle, all’alba del suo mandato tutto nuovo e rutilante, ha marcato la sua opinione con un silenzio assordente e abile che lasciava la battaglia svolgersi tra orchestra e intendente, e pertanto non ha aperto bocca per difendere Ohnesorg. Quest’ultimo ne ha tratto le conseguenze.

Ma quello che viene chiamato in causa è appunto il ruolo dell’intendente, del Manager in una struttura artistica, e questo ruolo diventa sempre più importante man mano che il ruolo della musica classica diminuisce nei media, nelle politiche culturali, nel pubblico. Più la classica è in crisi, e più ci si rifugia nelle mani dei manager e del marketing per guadagnare fette di mercato. Quello che si nasconde dietro le dimissioni di Ohnesorg, è il ruolo nuovo del manager e del management nella politica culturale di oggi.

Con Karajan, i Berliner avevano conosciuto un regno di direttore-manager : i conflitti sono stati numerosi, sono qualche volta durati anni, ma i dischi si sono sempre fatti e hanno reso molto per tutti. Cosa fare quando il guru è morto, quando è stato inciso tutto il repertorio musicale o quasi, quando i dischi rendono meno: Karajan vende oggi ancora più di tutti gli altri, ne Rattle, ne Abbado possono competere. Abbado non ha potuto incidere tutto quello che voleva con la Deutsche Grammophon e ha trovato sponsors privati (faccio riferimento, ad esempio, alla Passione secondo Matteo, venduta in edicola in Italia, che il mondo intero ricerca adesso ). Davanti alla crisi del mercato, c’è in realtà un grande disappunto, e nessuno vuole rinunciare alle royalties, alla sua libertà di scelta e alle sue abitudini.

Il manager è dunque in una certa maniera l’unico ricorso di fronte alla crisi ; il suo impegno consiste a trovare i mezzi per continuare non solo a funzionare, ma anche a guadagnare più soldi, quindi guadagnare pubblico usando nuovi canali : a Berlino recentemente si è tentato di avvicinarsi al Rock (un concerto ad Hannover 2000 con gli Scorpions, iniziativa dell’orchestra criticata tra l’altro dal direttore come dall’intendente di allora), alla Scala, entra il musical in repertorio. In breve, si tenta di fare come se la classica dovesse nascondersi dietro la modernità per “fare moderno”. Ben evidentemente, tutto questo è ridicolo, al limite del pietoso.

La musica classica deve combattere con le sue armi, e non vestirsi da vestiti altrui. Callas vende ancora (ma è diventata un prodotto « Trendy ») anche con incisioni rimasterizzate poco udibili di fronte alle esigenze odierne in materia di suono spesso maniacali. Si può notare l’incredibile successo di pezzi classici usati come sottofondo a spots pubblicitari , o di certi films con tema musicale, oppure dell’opera-cinema. Ma il problema è altrove: sta innanzitutto nel fatto che la classica è in crisi creativa: la creazione musicale rimane oggi confidenziale o poco popolare – malgrado sforzi di compositori come Vacchi in Italia oppure artisti come Tom Waits, John Adams, Steve Reich.; inoltre il repertorio standard non potrà a lungo limitarsi a 30 opere liriche e 50 sinfoniche all’ora dello zapping e della richiesta pregnante di novità a tutti costi. E non è vendendo delle magliette inneggiando la Scala o i Berliner Philharmoniker che si risolvono i deficit..

Certo si ricerca di esumare opere sconosciute osannandone tutte le virtù che non sempre hanno (penso al repertorio barocco, vera botta delle Danaidi ), certo si è cercato ad affidare regie a registi scapigliati o scandalosi, certo si affida spettacoli a cantanti al limite del varietà (Bocelli), oppure si trascinano autentiche star della lirica verso il varietà, soprattutto quando la voce declina (Tre tenori), ma sono solo soluzioni di ripiego. Funzionando cosi, non si fa che ritardare le inevitabili scadenze, ma la crisi del pubblico del Teatro alla Scala da quando è traslocato agli Arcimboldi è un indice che dovrebbe far riflettere: chi pratica una politica balorda ne raccoglie presto o tardi i frutti amari. L’assenza di politica artistica seria , coerente e senza concessioni produce mediocrità.

Ma una politica artistica seria , coerente e senza concessioni non è per forza garante di successo, almeno immediato, ed è un pesante problema manageriale. Perché la crisi della classica non attiene solo a se stessa, ma anche alla logistica indotta: la classica costa caro, come l’Arte in generale, ma con una resa minima. Quando si pensa che una produzione mitica come la LULU di Chéreau-Boulez è stata vista 9 volte a Parigi e 2 volte a Milano, mai più ripresa e neanche venduta in video mentre esiste un video, e prodotta in tutto e per tutto per circa 22000 spettatori, non si può che deplorare l’assurdo della situazione e l’imperizia manageriale che ha condotto a tale risultato. Pero non si può fare Così fan Tutte davanti a 15000 persone alla volta – tutt’al più davanti a 2000 spettatori che forse sono ancora troppi…Tutto ciò implica una politica tariffaria proibitiva e quindi una selezione economica del pubblico. Purtroppo, in questa battaglia, pochi sono gli artisti che hanno contribuito all’indispensabile apertura ad un nuovo pubblico e all’indispensabile democratizzazione perché l’artista non sempre pensa al pubblico: il lusso musicale costa caro alla collettività, e meglio finanziare un concerto rock, che costa cosi caro come la lirica, ma che si può ripetere davanti a decine di miglia di persone. Anche se certi concerti di Pavarotti o certe None di Beethoven si sono svolti davanti a centinaia di migliaia di spettatori, non si può dire lo stesso di Dietrich Fischer Dieskau o del Quartetto Hagen.

Lo Stato deve dunque provvedere, assumendo i suoi doveri di educazione democratica (e non di massa) ; i media dovrebbero svolgere il loro ruolo, ma in realtà sono guidate solo dalla corsa all’udienza e dal suo corteo di corruzioni ; per non parlare del ruolo della scuola e degli artisti stessi.

Sola isola ancora felice in questo paesaggio desolato, la Germania, con la sua rete di 250 teatri e le sue orchestre sinfoniche in ogni città piccola, media o grande. Ma il problema esiste anche li, anche li acuto: sola differenza con altri paesi, lo spettacolo vivente, la musica vivente, in diretta, va parte della cultura e dell’identità del paese. Sono delle tradizioni molto ancorate ed ogni chiusura di Teatro è in Germania un trauma. Ma la recente avventura di Ohnesorg, nonché le polemiche roventi sulla vita culturale di Berlino e le istituzioni finanziate dalla città dimostrano la realtà dei problemi: questi problemi toccano le grandi istituzioni di riferimento, immaginiamo quelli che toccano Teatri come Pforzheim , Bielefeld o Heidelberg !

La posta in gioco è chiara :

- o si considera prioritaria la conservazione del patrimonio musicale europeo, unico elemento comune a tutti gli abitanti del vecchio continente che non abbia bisogno di mediazione per essere accessibile a ciascuno e immediatamente comprensibile da tutti, ma in questo caso gli Stati devono smettere di considerare la classica come un lusso e prendere provvedimenti di conseguenza.

- oppure si considera definitivamente la classica come un lusso, una ballerina da trattenere riservata ad una cosiddetta – se dicente – elite sociale o economica, e l’Opera e le Sale da concerto diventeranno Case Chiuse per clienti esclusivi, luoghi di riconoscimento sociale per bancari in voglia di divertimento o di parata, come purtroppo è il caso in molti paesi.

Ma un’inversione di tendenza presuppone intelligenza, qualità rara, coraggio, qualità ancora più rara, e perseveranza, qualità non veramente politically correct.

Non ho nulla contro il management, quando il manager aiuta a produrre senza concessioni, non quando cerca ad appiattire l’offerta culturale al livello di una cultura media: si è visto che le ultime stagioni scaligere, fatte di cosiddette grandi opere popolari non hanno portato ad una fedelizzazione ma a una volatilizzazione del pubblico, perché in questo caso il management mira solo al riempimento serale della sala, politica esclusivamente quantitativa che si appoggia su una politica artistica media che da poco disturbo cioè poco arrosto e poco fumo. Si potrebbe fare lo stesso commento per certi grandi teatri europei, lirici o di prosa. Si tratta invece di lavorare su un pubblico, sulla sua qualità di ascolto, sulla sua educazione, sui suoi progressi nella curiosità: il Teatro e il Concerto devono ritrovare un ruolo sociale che sembrano perdere per dedicarsi solo al divertimento occasionale . Se il management contribuisce a rendere all’istituzione culturale il suo ruolo indispensabile nel tessuto sociale del territorio, allora sosteniamo i managers; se il management invece consiste a proporre un prodotto effimero basato sull’immagine e non la sostanza , allora che la potenza pubblica riprenda le redini e che i managers ritornino al loro mestiere di produttori di saponette che non avrebbero mai dovuto lasciare.