Ieri sera ero tra il gruppo di persone che hanno visionato, anche se solo in parte, il video dello spettacolo di Robert Carsen. Non mi pronuncio sull'aspetto musicale, che non è quello di maggiore attualità e per di più la qualità dell'audio era modesta; non faccio neppure confronti con gli spezzoni ascoltati dell'esecuzione in forma di concerto diretta personalmente da Bernstein al Barbican Center di Londra con la LSO e cantanti del calibro di Christa Ludwig e June Anderson. L'interesse era volto soprattutto a a capire perché uno spettacolo che ha ha avuto un grande successo in un prestigioso teatro di Parigi, sino a poco tempo fa diretto da Stéphane Lissner, non può trovare ospitalità alla Scala, almeno nella forma in cui colà è stato rappresentato. Tolgo subito di mezzo la questione della scenetta dei cinque uomini di stato ubriachi, indossanti cravatte e mutande dai rispettivi colori nazionali. Lì si tratta di una comicità abbastanza facile e il personaggio più bersagliato è sicuramente Jacques Chirac, il che sta a testimoniare del buon senso dell'umorismo dei parigini. Non escludo che lo stesso Chirac ne abbia preso visione facendosi quattro risate. E' legittimo il dubbio che altrettanto farebbero personaggi come Bush, Putin o Berlusconi (l'umorismo del quale consiste per lo più in barzellette anni sessanta), che non mi risulta abbiano mai dato grandi prove di autoironia. Ma direi che qui Carsen ha voluto tuffarsi un po' nel kitsch, al limite dell'avanspettacolo. Né mi è parso che si tratti di una scena- pilastro dello spettacolo, anche se l'attualizzazione della satira contro i potenti (cosa vogliamo, la satira contro i bambini del Darfur?) è pienamente legittima: Bernstein aveva attualizzato la satira di Voltaire trasferendola nel clima del maccartismo americano degli anni cinquanta, dando vita a un'operetta di grande genialità e bellezza musicale. Ma oggi chi riderebbe più, anzi chi soprattutto fra i giovani sa chi era il senatore McCarthy? Conserva una certa attualità il sarcasmo dell'ebreo accusato di comunismo Leonard Bernstein, sotto il tiro della famigerata commisione maccartista insieme con altri grandi del Novecento come Charlie Chaplin o Arthur Miller. La scena, di una comicità un po' agghiacciante, nella quale Carsen fa condannare al rogo gli "ebrei comunisti" (come dire il peggio del peggio), è comunque di una assoluta qualità artistica. Ma cosa allora può avere indotto il Sovrintendente della Scala, che si è divertito come un matto insieme al figlio quattordicenne assistendo a una recita parigina, a una prudenza manifestata all'inizio con indubbia goffaggine? Parliamoci chiaro: la corrosività della satira anticlericale e antideterministica di Voltaire non è per nulla inferiore a quella di Bernstein e di Carsen. Basta rileggere il percorso della sifilide arrivata fino a Paquette, che la regala al dottor Pangloss, per capire che anche Voltaire era andato giù pesante ma di brutto, dando vita al tempo stesso a un capolavoro letterario e filosofico di cui nessuno osa mettere in discussione l'immortalità, a pena di patente di imbecillità. Quella di Carsen, che si innesta sul testo di Bernstein sostanzialmente fedele allo spirito voltairiano (volterriano, direbbe il sagrestano di Puccini), fa un uso altrettanto largo del vetriolo e si muove secondo tre filoni di attualità, almeno quelli che mi è parso di individuare. Il primo è di assoluta evidenza all'apertura del sipario: tutta la scena è inserita in un gigantesco schermo televisivo e quindi la satira delle deformazioni mediatiche del nostro tempo non richiede ulteriori chiose. Il secondo è quello che più si ricollega a Voltaire: ma la sottolineatura della satira contro la teoria del mondo preordinato in tutto e per tutto per il meglio, a me è parsa diretta anche contro la rinnovata teoria del "disegno intelligente" e coinvolge quindi alte autorità spirituali impegnate nel sostenterla (scherza coi fanti e lascia stare i fanti, direbbe sempre il sagrestano di Tosca). Il modo con il quale l'azione è condotta da Carsen è assolutamente esilarante, ma richiede -per essere apprezzata- un senso dell'umorismo latitante in molti ambienti politico-religiosi, non solo, per così dire, "di destra". Il terzo è diretto contro certi aspetti della "american way of life" e non si limita alla presa in giro di questo o quel governante. Voltaire se l'era presa con certe manifestazioni del colonialismo spagnolo e della penetrazione gesuitica in America Latina; non è pensabile che potesse prendersela con gli USA (e in particolare il loro modo di accogliere gli immigrati, cosa che tocca da vicino anche noi) ancor prima della fondazione degli Stati Uniti! Quindi, in sostanza, una feroce ma divertentissima presa in giro della telecrazia, del dogmatismo anti-relativista e del mito americano. Indubbiamente, calato nel contesto italiano, si tratta di un cocktail micidiale. Ma lo spettacolo di Carsen non è stato concepito per l'Italia: probabilmente farà con enorme successo il giro del mondo. E allora perché tutta questa paura a rappresentarlo nel "sacro tempio della lirica"? Tanto più che dal 1956, anno della sua creazione, la Scala non ha mai preso in considerazione l'idea di metterlo in cartellone, cosa del resto sottolineata dalla presentazione ancora presente nel sito ufficiale del Teatro. La mia opinione è che in Italia si stia tornando a un clima che mi ricorda quello in cui Giorgio Strehler mise in scena, nel 1963 se non sbaglio, il Galileo di Brecht. Ma Galileo è stato riabilitato dalla Chiesa e oggi coloro che allora ne fecero una questione di blasfemia dovrebbero vergognarsi di mettere il naso in polemiche analoghe. Non si accetta di vedersi esporre tesi, che urtano in modo paradossale un certo "senso comune". Questa forma di intolleranza si manifestò anche contro autori di teatro come Genet o Hochhut, il cui "Vicario" uscì in Italia addirittura con una prefazione del cattolico Carlo Bo.Allora vorrei qui riportare una citazione di Luigi Einaudi, che non era esattamente un "ebreo comunista", ma un liberale mite e moderato: "Amante del paradosso è colui il quale ricerca e scopre la verità, esponendola in modo da irritare l'opinione comune, costringendola a riflettere ed a vergognarsi di se stessa e della supina inconsapevole accettazione di errori volgari". In conclusione, io penso che Lissner abbia commesso un'imprudenza, della quale forse si è pentito: quella di aver messo Candide in cartellone di abbonamento. Gli abbonati tradizionali della Scala li conosciamo bene, dalla antica reazione al Wozzeck diretto da Mitropoulos, al fastidio di fronte alla prima apparizione scaligera di Porgy and Bess, all'accoglienza parruccona a regie discutibili, ma che almeno hanno il pregio di far discutere e non solo gettar via soldi che basterebbero per tre o quattro spettacoli, come l'ultima Aida. Forse un pubblico di giovani, fuori abbonamento, lo apprezzerebbe di più, anche se forse non tutto in giacca e cravatta.

Gabriele Boccalini 17 febbraio 2007