Nel grande spazio teatrale ricavato nel 1618 da una sala d’armi al primo piano del palazzo “della Pilotta”, i Farnese, discendenti da papa Paolo III, allora duchi di Parma e Piacenza, antenati diretti dell’attuale famiglia reale di Spagna, diedero una nuova dimostrazione della loro passione (e del loro ottimo gusto) per l’architettura come espressione del potere: furono loro residenze di famiglia indiscussi capolavori quali il palazzo romano iniziato da Sangallo il giovane, compiuto da Michelangelo e decorato dai Carracci (vi ha sede, da 75 anni e almeno per altri 24, l’ambasciata di Francia); lo stupefacente castello pentagonale di Caprarola, oggi luogo di rappresentanza della Presidenza della Repubblica; e, appunto, le due grandi “regge” di Parma e di Piacenza, la prima distrutta in parte durante la guerra civile europea, l’altra rimasta incompiuta in forma d’imponente torso (oggi ospita un bellissimo e poco famoso Botticelli).

La sfarzosa sala lignea che il duca Ranuccio I fece costruire nel 1618 «Bellonae et Musis», affidandone la realizzazione a un architetto-scenografo, Giambattista Aleotti detto l’Argenta, già autore del Teatro degl’Intrepidi a Ferrara, oggi non piú esistente, non era stata prevista per durare nel tempo: era intesa come un allestimento da durar poco, per abbagliare un granduca di Firenze di passaggio a Parma e indurlo a concedere una dote non indegna dell’accoglienza e dello sfarzo mostrati del futuro consuocero alla figlia Margherita, destinata a sposare il principe di Parma, Odoardo. Il granduca non si fece vedere, il matrimonio per il momento non fu concluso, la sala sembrò una spesa inutile: ma, con buona evidenza, apparve una tale meraviglia da sopravvivere alla propria “inutilità”, finché dieci anni dopo e ormai morti sia Ranuccio I sia il previsto consuocero Cosimo II, fu usata per il torneo che fu spettacolo culminante dei festeggiamenti per le nozze, finalmente celebrate, tra Odoardo, nuovo duca di Parma, e la Margherita, non piú figlia ma sorella del granduca regnante di Toscana. Per offrire una degna cornice musicale alle feste nuziali era stato ingaggiato, già dall’anno precedente, anche il primo dei musicisti dell’epoca, Claudio Monteverdi, che forní quattro intermezzi e una “licenza” per la rappresentazione del tassiano Aminta (in un luogo all’aperto, nonostante si fosse a metà dicembre) e le musiche di contorno al successivo torneo, delle quali conosciamo solo il titolo, Mercurio e Marte. Assente giustificato l’illustre Autore: i suoi datori di lavoro, cioè i Procuratori di San Marco, gli avevano negato il permesso di lasciare Venezia.

In seguito, la mirabile sala, che da tempo ha assunto il nome di Teatro Farnese, fu utilizzata pochissimo, per altre nozze e spettacoli di corte, comprese ducali naumachíe (le arcate che la reggono sono d’imponenza a tutta prova): qualcuno dice che sia stata usata solo nove volte in due secoli, altri che l’ultimo utilizzo “antico” sia avvenuto nel 1732, quando era duca di Parma il giovanissimo Carlos Sebastián de Borbón y Farnesio, figlio dell’ultima dei Farnese e d’un nipote cadetto del re Sole: divenuto successivamente re di Napoli e di Sicilia (grazie alle vicende narrate nel… terz’atto della Forza del destino), si fece costruire nella nuova capitale il grande teatro che porta ancora oggi il nome del suo santo protettore, e poi concluse la sua “carriera” come re di Spagna, terzo del nome Carlo, a maggiore gloria del Goya che lo ritrasse in una serie di capolavori. Ammutolita, ma ammiratissima da storici e viaggiatori, la grande sala bruciò quasi completamente nel maggio del 1944; la ricostruzione, condotta secondo i disegni originali e rinunziando a parte delle decorazioni scultoree, fu compiuta nel 1960. Oggi, il Teatro Farnese fa parte del percorso di visita alla Pinacoteca Nazionale di Parma. L’utilizzo come luogo per spettacoli è stato limitatissimo, anche se non del tutto assente (ad esempio, nel 2003 Luca Ronconi v’allestí due diverse versioni, della celebre tragedia di John Ford What a pity she’s a whore…, che proprio a Parma è ambientata); però, per “motivi di sicurezza” (e di conservazione), il pubblico non era mai stato ammesso sulle gradinate, invero ripidissime e un filo perigliose.

Del tutto eccezionale, quindi, e tale da poter essere considerata un’autentica reinaugurazione, la serata di domenica 12 giugno 2011, che ha visto impegnata l’Orchestra Mozart di Bologna e due celebri strumentisti: Lucas Macias Navarro (oboe) e Isabelle Faust (violino). Non mi pare che, in una simile occasione, stonino le giuste (e garbatissime) rivendicazioni di merito che per il concerto hanno avanzato in molti, dal sindaco di Parma ai principali sponsor (Cariparma e Chiesi Farmaceutici), dalla direttrice dei beni culturali emiliano-romagnoli alla sovrintendente alle belle arti di Parma e Piacenza e al sovrintendente del locale Teatro Regio; e m’è gradito dire che mi sono parse particolarmente spontanee le poche convinte parole, stampate sur un foglietto aggiunto al programma, dettate per l’occasione da Claudio Abbado, protagonista della serata a non minore titolo dell’edificio in cui essa ha avuto luogo. Prima del concerto, cortese e ordinato tentativo di sensibilizzazione del pubblico da parte degli artisti e delle maestranze del Teatro Regio.

L’utilizzo del Teatro Farnese per un’esecuzione musicale “moderna” poneva ovviamente anche dei problemi d’acustica (si legge ce ne fossero stati anche nel 1628 e avessero richiesto soluzioni… prewagneriane): la grande sala dispone d’un profondo palcoscenico, di poco rialzato rispetto al livello della cavea, che è stato ovvio isolare prima del concerto con un elegante sipario a pannelli scorrevoli. L’orchestra ha poi suonato sur una piattaforma, altra a occhio poco piú di mezzo metro e collocata davanti al boccascena.: non so quanto fosse visibile (e udibile) dalla “platea” (sarebbe piú corretto chiamarla “cavea”), in cui erano state collocate, su poco meno di trenta file, all’incirca ottocento sedie, ossia oltre la metà dei posti disponibili, dichiarati pari a 1500 in tutto. Io ero nella fila piú in alta della gradinata di sinistra, un po’ piú indietro della metà del tratto rettilineo, e sono stato felicissimo della mia posizione, anche grazie al comodo cuscino collocato dagli organizzatori in corrispondenza d’ogni posto previsto (questi cuscini hanno quindi svolto una funzione non solo di comodità, ma anche d’ordine). Non so dire se la collocazione “canonica” dell’orchestra nella sala sia stata data per scontata sin dall’inizio, o se sia stata l’esito di ricerche e tentativi: vedendo l’insieme dal mio posto m’è sembrato che, forse, sarebbe stato possibile collocarla anche nel mezzo della cavea o all’estremità opposta al boccascena, nel semicerchio sottostante le gradinate sopra l’ingresso. Comunque sia, grande era la sfida di realizzare un concerto in un luogo in cui nessuno oggi vivente aveva mai sentito suonare un’orchestra in presenza del pubblico (che altera sempre profondamente, già a causa dell’aumento dell’umidità dell’aria, le condizioni acustiche della sala, in questo caso del tutto insolite già per l’assenza totale di rivestimento sulla grande massa lignea che ne costituisce le strutture).

Claudio Abbado, con la disciplinatissima e prontissima Orchestra Mozart, ha rapidamente risolto da pari suo il problema che m’era sembrato esistere alle prime battute della Sinfonia in Re maggiore KV 385, “Haffner”: quello d’una marcata preminenza degli archi gravi (6 violoncelli e 4 contrabbassi, come nella Pastorale del secondo tempo) e d’una certa povertà d’armonici superiori, un po’ come si sentiva nelle vecchie trasmissioni radiofoniche a onde medie. Una volta raggiunto l’usuale ottimo equilibrio sonoro tra i vari settori dell’orchestra, ho poi avuto l’impressione che Abbado, nel movimento lento, quasi sperimentasse l’udibilità nella grande sala del registro acuto dei violini in pianissimo. Dal punto di vista del “fruitore” di musica, l’esecuzione, il cui carattere un po’sperimentale m’è parso innegabile, ha finito per essere molto diversa da quelle cosí taglienti e scattanti dello stesso pezzo che ricordo dal novembre 2004 a Bologna (furono una rivelazione anche rispetto alla registrazione Sony con i Berliner, del decennio precedente): sembrava quasi che il legno del teatro, in grande parte ancora ignaro di musica, faticasse a vibrare con questa. Ne è uscito un Mozart di grande (e precisissima) compostezza, molto classico ed “educato”.

Seguiva il Concerto per oboe e orchestra in Do maggiore, KV 314: sin dalla prima entrata dell’oboe solista di Navarro s’è potuta meglio apprezzare la straordinaria purezza e la calda bellezza del suono favorite dalla sala. È proseguito il tono d’un Mozart molto educato (nei passi che ne anticipano il motivo caratteristico, anche la sfacciata simpatia che sarà di Pedrillo sembrava ancora solo in nuce). Questo gusto per un Mozart quasi crepuscolare e “nostalgico”, ma allo stesso tempo ricercatore d’un’espressività non piú galante e nemmeno settecentesca, m’è sembrato poi perfettamente allineato con l’esecuzione della solista Isabelle Faust nel grande Concerto per violino e orchestra in La maggiore, KV 219 affidata alla Faust. La visionaria resa delle “anticipazioni” contenute in questo pezzo, in particolare nell’episodio generalmente detto “turco” del Rondo (e che io sento, invece, come... russo-tzigano) m’è sembrata quasi richiamare le recenti frequentazioni schumanniane del maestro e gettare una luce trasversale e affascinante sulle frequentazioni ideologiche ed emotive del Mozart diciannovenne (i cromatismi d’un Vanhal, la severità di pensiero d’un Herder)

Poiché ho sentito ormai molte volte Abbado dirigere Mozart, trovo opportuno sottolineare il suo approccio costantemente problematico e sperimentale alla musica del Salisburghese, che ha portato a molti risultati immediatamente sensazionali (cito, tra le occasioni che ho ascoltato, il concerto di Bolzano con Lupu nel 2006, il successivo Requiem ancora a Bolzano, il recentissimo KV 453 berlinese con Pollini, i già citati concerti inaugurali a Bologna, il Don Giovanni degli anni Novanta a Ferrara e il Cosí fan tutte del febbraio 2004 ancora a Ferrara). Talaltra, invece, il Mozart “di” Abbado, non colpisce altrettanto, direi quasi che non “conquisti”, fatti salvi il fascino sonoro e la rara fusione con le qualità dei solisti impegnati, ma appare sempre una nuova tappa d’una continua ricerca, d’una riflessione formale, magari stimolata dalle circostanze speciali dell’esecuzione, come in questo caso.

L’impressione di minore impatto emotivo lasciatami dai pezzi di Mozart (e dallo stesso bis bachiano che poi aveva abilmente riunito i due solisti) può essere anche stata dovuta al successivo altissimo risultato della Pastorale, in particolare del blocco degli ultimi tre movimenti, quando la perfetta fusione tra suono e sala (sembrava quasi che se il legno di questa si fosse ridestato alla vita), il dosaggio sottilissimo dei piani dinamici, il fraseggio che tutta rendeva la “necessità” d’ogni episodio melodico, la flessibilità degli archi e il risalto timbrico dei legni e degli ottoni (su tutti un Allegrini, Carbonare e ancora Navarro), m’hanno lasciato l’impressione d’un’esecuzione ideale che ha coronato un concerto in un ambiente di fascino unico, senza dubbio la più straordinaria sala di spettacolo che io abbia mai visto.

Conclusione festevole, brillante e scatenata con la marcia d’uscita d’una Serenata mozartiana; esito meritatamente trionfale.