Parma, 12 giugno 2011: Il legno si ridesta alla vita
Guy Cherqui, 2011/06/17 Abbado Orchestra Mozart
Nel grande spazio teatrale ricavato nel 1618 da una sala d’armi al primo
piano del palazzo “della Pilotta”, i Farnese, discendenti da papa Paolo
III, allora duchi di Parma e Piacenza, antenati diretti dell’attuale
famiglia reale di Spagna, diedero una nuova dimostrazione della loro
passione (e del loro ottimo gusto) per l’architettura come espressione
del potere: furono loro residenze di famiglia indiscussi capolavori
quali il palazzo romano iniziato da Sangallo il giovane, compiuto da
Michelangelo e decorato dai Carracci (vi ha sede, da 75 anni e almeno
per altri 24, l’ambasciata di Francia); lo stupefacente castello
pentagonale di Caprarola, oggi luogo di rappresentanza della Presidenza
della Repubblica; e, appunto, le due grandi “regge” di Parma e di
Piacenza, la prima distrutta in parte durante la guerra civile europea,
l’altra rimasta incompiuta in forma d’imponente torso (oggi ospita un
bellissimo e poco famoso Botticelli).
La sfarzosa sala lignea che
il duca Ranuccio I fece costruire nel 1618 «Bellonae et Musis»,
affidandone la realizzazione a un architetto-scenografo, Giambattista
Aleotti detto l’Argenta, già autore del Teatro degl’Intrepidi a Ferrara,
oggi non piú esistente, non era stata prevista per durare nel tempo:
era intesa come un allestimento da durar poco, per abbagliare un
granduca di Firenze di passaggio a Parma e indurlo a concedere una dote
non indegna dell’accoglienza e dello sfarzo mostrati del futuro
consuocero alla figlia Margherita, destinata a sposare il principe di
Parma, Odoardo. Il granduca non si fece vedere, il matrimonio per il
momento non fu concluso, la sala sembrò una spesa inutile: ma, con buona
evidenza, apparve una tale meraviglia da sopravvivere alla propria
“inutilità”, finché dieci anni dopo e ormai morti sia Ranuccio I sia il
previsto consuocero Cosimo II, fu usata per il torneo che fu spettacolo
culminante dei festeggiamenti per le nozze, finalmente celebrate, tra
Odoardo, nuovo duca di Parma, e la Margherita, non piú figlia ma sorella
del granduca regnante di Toscana. Per offrire una degna cornice
musicale alle feste nuziali era stato ingaggiato, già dall’anno
precedente, anche il primo dei musicisti dell’epoca, Claudio Monteverdi,
che forní quattro intermezzi e una “licenza” per la rappresentazione
del tassiano Aminta (in un luogo all’aperto, nonostante si fosse a metà
dicembre) e le musiche di contorno al successivo torneo, delle quali
conosciamo solo il titolo, Mercurio e Marte. Assente giustificato
l’illustre Autore: i suoi datori di lavoro, cioè i Procuratori di San
Marco, gli avevano negato il permesso di lasciare Venezia.
In
seguito, la mirabile sala, che da tempo ha assunto il nome di Teatro
Farnese, fu utilizzata pochissimo, per altre nozze e spettacoli di
corte, comprese ducali naumachíe (le arcate che la reggono sono
d’imponenza a tutta prova): qualcuno dice che sia stata usata solo nove
volte in due secoli, altri che l’ultimo utilizzo “antico” sia avvenuto
nel 1732, quando era duca di Parma il giovanissimo Carlos Sebastián de
Borbón y Farnesio, figlio dell’ultima dei Farnese e d’un nipote cadetto
del re Sole: divenuto successivamente re di Napoli e di Sicilia (grazie
alle vicende narrate nel… terz’atto della Forza del destino), si fece
costruire nella nuova capitale il grande teatro che porta ancora oggi il
nome del suo santo protettore, e poi concluse la sua “carriera” come re
di Spagna, terzo del nome Carlo, a maggiore gloria del Goya che lo
ritrasse in una serie di capolavori. Ammutolita, ma ammiratissima da
storici e viaggiatori, la grande sala bruciò quasi completamente nel
maggio del 1944; la ricostruzione, condotta secondo i disegni originali e
rinunziando a parte delle decorazioni scultoree, fu compiuta nel 1960.
Oggi, il Teatro Farnese fa parte del percorso di visita alla Pinacoteca
Nazionale di Parma. L’utilizzo come luogo per spettacoli è stato
limitatissimo, anche se non del tutto assente (ad esempio, nel 2003 Luca
Ronconi v’allestí due diverse versioni, della celebre tragedia di John
Ford What a pity she’s a whore…, che proprio a Parma è ambientata);
però, per “motivi di sicurezza” (e di conservazione), il pubblico non
era mai stato ammesso sulle gradinate, invero ripidissime e un filo
perigliose.
Del tutto eccezionale, quindi, e tale da poter essere
considerata un’autentica reinaugurazione, la serata di domenica 12
giugno 2011, che ha visto impegnata l’Orchestra Mozart di Bologna e due
celebri strumentisti: Lucas Macias Navarro (oboe) e Isabelle Faust
(violino). Non mi pare che, in una simile occasione, stonino le giuste
(e garbatissime) rivendicazioni di merito che per il concerto hanno
avanzato in molti, dal sindaco di Parma ai principali sponsor (Cariparma
e Chiesi Farmaceutici), dalla direttrice dei beni culturali
emiliano-romagnoli alla sovrintendente alle belle arti di Parma e
Piacenza e al sovrintendente del locale Teatro Regio; e m’è gradito dire
che mi sono parse particolarmente spontanee le poche convinte parole,
stampate sur un foglietto aggiunto al programma, dettate per l’occasione
da Claudio Abbado, protagonista della serata a non minore titolo
dell’edificio in cui essa ha avuto luogo. Prima del concerto, cortese e
ordinato tentativo di sensibilizzazione del pubblico da parte degli
artisti e delle maestranze del Teatro Regio.
L’utilizzo del
Teatro Farnese per un’esecuzione musicale “moderna” poneva ovviamente
anche dei problemi d’acustica (si legge ce ne fossero stati anche nel
1628 e avessero richiesto soluzioni… prewagneriane): la grande sala
dispone d’un profondo palcoscenico, di poco rialzato rispetto al livello
della cavea, che è stato ovvio isolare prima del concerto con un
elegante sipario a pannelli scorrevoli. L’orchestra ha poi suonato sur
una piattaforma, altra a occhio poco piú di mezzo metro e collocata
davanti al boccascena.: non so quanto fosse visibile (e udibile) dalla
“platea” (sarebbe piú corretto chiamarla “cavea”), in cui erano state
collocate, su poco meno di trenta file, all’incirca ottocento sedie,
ossia oltre la metà dei posti disponibili, dichiarati pari a 1500 in
tutto. Io ero nella fila piú in alta della gradinata di sinistra, un po’
piú indietro della metà del tratto rettilineo, e sono stato felicissimo
della mia posizione, anche grazie al comodo cuscino collocato dagli
organizzatori in corrispondenza d’ogni posto previsto (questi cuscini
hanno quindi svolto una funzione non solo di comodità, ma anche
d’ordine). Non so dire se la collocazione “canonica” dell’orchestra
nella sala sia stata data per scontata sin dall’inizio, o se sia stata
l’esito di ricerche e tentativi: vedendo l’insieme dal mio posto m’è
sembrato che, forse, sarebbe stato possibile collocarla anche nel mezzo
della cavea o all’estremità opposta al boccascena, nel semicerchio
sottostante le gradinate sopra l’ingresso. Comunque sia, grande era la
sfida di realizzare un concerto in un luogo in cui nessuno oggi vivente
aveva mai sentito suonare un’orchestra in presenza del pubblico (che
altera sempre profondamente, già a causa dell’aumento dell’umidità
dell’aria, le condizioni acustiche della sala, in questo caso del tutto
insolite già per l’assenza totale di rivestimento sulla grande massa
lignea che ne costituisce le strutture).
Claudio Abbado, con la
disciplinatissima e prontissima Orchestra Mozart, ha rapidamente risolto
da pari suo il problema che m’era sembrato esistere alle prime battute
della Sinfonia in Re maggiore KV 385, “Haffner”: quello d’una marcata
preminenza degli archi gravi (6 violoncelli e 4 contrabbassi, come nella
Pastorale del secondo tempo) e d’una certa povertà d’armonici
superiori, un po’ come si sentiva nelle vecchie trasmissioni
radiofoniche a onde medie. Una volta raggiunto l’usuale ottimo
equilibrio sonoro tra i vari settori dell’orchestra, ho poi avuto
l’impressione che Abbado, nel movimento lento, quasi sperimentasse
l’udibilità nella grande sala del registro acuto dei violini in
pianissimo. Dal punto di vista del “fruitore” di musica, l’esecuzione,
il cui carattere un po’sperimentale m’è parso innegabile, ha finito per
essere molto diversa da quelle cosí taglienti e scattanti dello stesso
pezzo che ricordo dal novembre 2004 a Bologna (furono una rivelazione
anche rispetto alla registrazione Sony con i Berliner, del decennio
precedente): sembrava quasi che il legno del teatro, in grande parte
ancora ignaro di musica, faticasse a vibrare con questa. Ne è uscito un
Mozart di grande (e precisissima) compostezza, molto classico ed
“educato”.
Seguiva il Concerto per oboe e orchestra in Do
maggiore, KV 314: sin dalla prima entrata dell’oboe solista di Navarro
s’è potuta meglio apprezzare la straordinaria purezza e la calda
bellezza del suono favorite dalla sala. È proseguito il tono d’un Mozart
molto educato (nei passi che ne anticipano il motivo caratteristico,
anche la sfacciata simpatia che sarà di Pedrillo sembrava ancora solo in
nuce). Questo gusto per un Mozart quasi crepuscolare e “nostalgico”, ma
allo stesso tempo ricercatore d’un’espressività non piú galante e
nemmeno settecentesca, m’è sembrato poi perfettamente allineato con
l’esecuzione della solista Isabelle Faust nel grande Concerto per
violino e orchestra in La maggiore, KV 219 affidata alla Faust. La
visionaria resa delle “anticipazioni” contenute in questo pezzo, in
particolare nell’episodio generalmente detto “turco” del Rondo (e che io
sento, invece, come... russo-tzigano) m’è sembrata quasi richiamare le
recenti frequentazioni schumanniane del maestro e gettare una luce
trasversale e affascinante sulle frequentazioni ideologiche ed emotive
del Mozart diciannovenne (i cromatismi d’un Vanhal, la severità di
pensiero d’un Herder)
Poiché ho sentito ormai molte volte Abbado
dirigere Mozart, trovo opportuno sottolineare il suo approccio
costantemente problematico e sperimentale alla musica del Salisburghese,
che ha portato a molti risultati immediatamente sensazionali (cito, tra
le occasioni che ho ascoltato, il concerto di Bolzano con Lupu nel
2006, il successivo Requiem ancora a Bolzano, il recentissimo KV 453
berlinese con Pollini, i già citati concerti inaugurali a Bologna, il
Don Giovanni degli anni Novanta a Ferrara e il Cosí fan tutte del
febbraio 2004 ancora a Ferrara). Talaltra, invece, il Mozart “di”
Abbado, non colpisce altrettanto, direi quasi che non “conquisti”, fatti
salvi il fascino sonoro e la rara fusione con le qualità dei solisti
impegnati, ma appare sempre una nuova tappa d’una continua ricerca,
d’una riflessione formale, magari stimolata dalle circostanze speciali
dell’esecuzione, come in questo caso.
L’impressione di minore
impatto emotivo lasciatami dai pezzi di Mozart (e dallo stesso bis
bachiano che poi aveva abilmente riunito i due solisti) può essere anche
stata dovuta al successivo altissimo risultato della Pastorale, in
particolare del blocco degli ultimi tre movimenti, quando la perfetta
fusione tra suono e sala (sembrava quasi che se il legno di questa si
fosse ridestato alla vita), il dosaggio sottilissimo dei piani dinamici,
il fraseggio che tutta rendeva la “necessità” d’ogni episodio melodico,
la flessibilità degli archi e il risalto timbrico dei legni e degli
ottoni (su tutti un Allegrini, Carbonare e ancora Navarro), m’hanno
lasciato l’impressione d’un’esecuzione ideale che ha coronato un
concerto in un ambiente di fascino unico, senza dubbio la più
straordinaria sala di spettacolo che io abbia mai visto.
Conclusione festevole, brillante e scatenata con la marcia d’uscita d’una Serenata mozartiana; esito meritatamente trionfale.