Venezia

Un tempo si riteneva che i "Concerti Brandeburghesi" di Bach (scritti attorno al 1720 e dedicati al Margravio di Brandeburgo) appartenessero al tradizione tedesca. Mi riferisco non tanto alle ricerche specialistiche della musicologia, ma alla prassi esecutiva dei complessi celebri - in cui spiccavano i memorabili Mnchinger e Richter - amplificati nell'organico e con una corposità e una evidenza ritmica vicine al pensiero, tra neoclassicismo e neoromanticismo, di Hindemith. La cosidetta "Musicologia applicata" dell'ultimo quarantennio, a cominciare da Gustav Leonhardt, ha recuperato il carattere del suono originario: allegerimento degli organici, con una articolazione severamente polifonica, quasi ascetica.

Claudio Abbado propone alla Fenice durante una tournée italiana i "Concerti Brandeburghesi" con l'Orchestra Mozart in una prospettiva esecutiva ancora rinnovata: guarda con interessa alla filologia, ma nel contempo tende ad attualizzarla: filologia e modernità interpretativa coincidono. Inoltre il concertatore sposta con attendibilità storicistica il codificato asse esecutivo dalla Germania verso il gusto italiano (non a caso Vivaldi o Corelli sono largamente assimilati nei "Brandeburghesi") e verso il gusto francese. La conseguenza è la luminosa trasparenza, la policromia dei timbri, l'ariosa eleganza del cantabile. L'impostazione è prevalentemente anche se non radicalmente, solistica (Bach prevedeva soltanto parti reali: l'orchestra della corte del Brandeburgo non superava in ogni concerto una decina di esecutori). Abbado, come dicevamo, accosta questo Bach al concerto italiano - i cui tempi sono più brillanti rispetto alla prassi tedesca - e nel contempo approfondisce la cantabilità della polifonia. Circola nell'esecuzione una gioia del far musica, un respiro molto naturale e comunicativo. Il rapporto tra strumenti vicini a caratteri antiquari (flauti e violini con corde di budello e archi barocchi) e strumenti moderni, tre oboi un fagotto e corni) è accortamente calibrato. Persino i corni moderni riescono ad evocare nel Primo Concerto il suono dei corni da caccia settecenteschi.

Alla Fenice si imponeva l'altra sera l'autorevolezza dei solisti. Il violinista Giuliano Carmignola, impegnato in ben cinque concerti ha un suono intimo, squisitamente barocco; si impone nel vorticoso virtuosimo con lo sguardo, stilisticamente consapevole, rivolto a Vivaldi. Nel Quinto Concerto Carmignola dialoga con il flauto traverso antico di Jacques Zoon, che scava il discorso melodicamente e con la luce del suono. Ottavio Dantone, nella monumentale cadenza, riesce a conciliare l'estrosità immaginativa con la coerenza strutturale e l'analisi sottile del contrappunto. Nel Quarto Concerto emerge la finezza strumentale del flauto dolce di Micala Petri e di Nikolas Tarasov. Il Terzo e il Sesto Concerto, di carattere cameristico, non prevedono il direttore. Abbado si limitava a seguire l'esecuzione dalla platea, ma si coglieva il controllo dei decorsi contrappuntistici e dialogici soprattutto nel Terzo Concerto, insieme arcaicizzante e progressivo. Nel Secondo Concerto, posto a chiusura del programma, spicca un incontenibile tripudio strumentale.

Come fuori programma replica festosa nel finale con tempi virtuosisticamente più spediti: soprende la lucente tromba acuta di Reinhold Friedrich e il flauto piccolo, il "flagelot", dal registro stellare ancora della Petri, a sostituzione del flauto dolce. Tra gli altri solisti ci limitiamo a ricordare i nomi dei bravissimi violoncellisti Mario Brunello, Enrico Bronzi e del rigoroso violone Alois Posch.

Inappuntabile la resa dell'Orchestra Mozart, di recente costituita, ma che oggi rischia la non sopravvivenza, per difficoltà finanziarie. Eppure si tratta di uno dei più qualificati complessi italiani.

Teatro naturalmente stipato, successo clamoroso.

Mario Messinis