TROPPE MANETTE PER QUESTO FIDELIO di PAOLO ISOTTA

L' allestimento scenico del Fidelio di Beethoven, prima esecuzione domenica al Teatro Municipale «Romolo Valli» di Reggio Emilia, riserba buone e cattive sorprese. Ricorrente è la presenza dei prigionieri, ancor prima del loro sublime coro: come sfondo sono collocate infinite teche in ciascuna delle quali puoi vedere una testa completamente avvolta da un cappuccio di cuoio. Quando i prigionieri si mostreranno a figura intera, si noteranno anche terribili manette strette sul davanti del lacero saio e, se fossero legati anche i piedi, non potresti fare a meno di pensare a un'anticipazione dell'inferno di Guantanamo. Il carcere come luogo scientifico di repressione venne inventato siccome panopticon dall'architetto inglese Jeremie Bentham e divenne uno dei temi più trattati dagli architetti utopistico- rivoluzionari francesi. Nel coro degl'incarcerati questi si addossano gli uni agli altri in gruppi fatali che, complici le luci radenti intervallate d'ombra, richiamano la pittura dello Zurbaran. Ma appare stupida ridondanza del regista Chris Kraus, fin qui così bravo grazie anche alle idee dello scenografo Maurizio Balò, voler fare di Pizarro, l'ottimo Albert Dohmen, un paralitico in sedia a rotelle che può muovere stenti passi coll'aiuto di stampelle. Quanta roba di troppo che non vale minimamente a connotare il personaggio, il quale scaturisce pur sempre dalle selvagge esplosioni di energia demoniaca dovute a Beethoven con quell'agghiacciante «tono maggiore» che vi s'insinua.... Non piace nemmeno la violenta luce proiettata in faccia agli spettatori nel quadro di don Fernando, ch'è di uno stile espressionistico là ove la musica ti suggerisce un'atmosfera elisia; e meno ancora (seconda superfetazione) il fatto che costui sia trasformato in un Cardinale: ma con la veste completamente sbagliata e una crocettina pettorale di quelle adoperate dai vescovi in clergy-man per essere nascoste sotto il rever della giacca. La compagnia di canto si colloca ferreamente all'interno della superba concertazione del maestro Claudio Abbado. Marcellina, Julia Kleiter, è una squisita soubrette di coloratura; e Giacchino un delicato tenore «di grazia», Jörg Schneider. Il primo (Ilker Arkaürek) e il secondo (Levente Pall) prigioniero si esprimono quasi sussurrando per lo stupore e il terrore nel loro importantissimo ruolo. Un Rocco di grande classe è Giorgio Surjan, che riesce, caso raro, a cantare pianissimo la sua entrata nel magico Quartetto Mir ist so wunderbar, mantenendo così quell'irrepetibile atmosfera sospesa alla quale tanto bene il maestro Abbado mira. Diogenes Randes, il don Fernando trasformato in cardinale dei poveri, è un basso di vaglia, e forse la duplice incongruenza drammatica (luci e costume) della regia impedisce che nel suo grande Recitativo si manifesti come una «personalità ». Clifton Forbis, Florestano, sarebbe forse un buon tenore se non accadesse, come il novanta per cento delle volte accade ai Florestani, che nella seconda parte della sua grande Aria, Und spür ich nicht linde, la voce gli si strozzasse sul «passaggio» e oltre. Anja Kampe non è di quelle Leonore vocalmente possenti alla Birgit Nilsson delle quali oggi esistono solo caricature: è invece uno strumento duttile nelle mani del concertatore, di bel timbro e buona recitazione, che ottiene un effetto celestiale, preparatole dal maestro Abbado, di crescendo-ritenendo e pianissimo subito sul Komm, Hoffnung della sua grande Aria coi tre corni soli. Il coro, istruito da Erwin Ortner e frutto della fusione del Coro «Arnold Schönberg» e di quello della Comunità di Madrid, fornisce una prestazione ammirevole: nel luogo cardine, il coro dei Prigionieri, alterna alla voce «presente » il soffio per esprimere l'emozione. L'Orchestra da Camera «Gustav Mahler» è un organismo di alta qualità: e basti citare il suono intonato, caldo e luminoso dei corni. Il maestro Abbado procede da una lettura che gli ha fatto profondamente interiorizzare il testo. Così, egli lo domina con totale equilibrio timbrico e ritmico e dinamico in costante rapporto con un disegno drammatico: il che vuol dire equilibrio di ciascuna delle parti rispetto al tutto accompagnato da delicata rifinitura. Ciò, atteso essere il Fidelio un Singspiel, ossia una «Commedia musicale», è ancor più difficile.

Regia inutilmente ridondante, superba la concertazione di Claudio Abbado