Club Abbadiani Itineranti

Il concerto del 16/17 febbraio

Cosa dicono i giornali?

(La nuova Ferrara, La Stampa, Il resto del Carlino)

 

 ( La Nuova Ferrara, 18 Febbraio)

Abbado-Argerich, qualcosa di speciale
Rivoluzionario «Egmont»
E Mahler supera i Berliner

di Alessandro Taverna

FERRARA. Due ore di musica, applausi e bis al Teatro Comunale per il concerto della Mahler Chamber Orchestra di Claudio Abbado e con Marta Argerich al pianoforte. Un concerto cominciato a luci abbassate e con un riflettore puntato sul cornista che attacca la Serenata di Britten.
Un concerto così non poteva che finire con un altro colpo di teatro. I bis sbocciano in genere dagli applausi del pubblico che non sono ancora stanchi di ascoltare, ma questa volta il bis lo dobbiamo anche a musicisti che non sono stanchi di suonare ancora e ci regalano così un bellissimo fuori-programma perchè bruciano dalla voglia di farcelo sentire. E' l'Egmont di Beethoven, che brucia davvero di passione e brucia anche qualsiasi possibile paragone. Quelle spirali degli archi nell'introduzione, gli stacchi bruschi impressi da Abbado, l'apoteosi che vibra sugli ottoni. Il suono che trascolora da trasparenze fredde ed avvolgenti zone di fortissimo. Ma niente enfasi con l'orchestra efficiente che mostra i muscoli tirati a lucido. Nessun preziosismo gratuito, nessun titanismo gratuito. Niente dettagli cavati a caso, ma piuttosto zoomate su un particolare già intrappolato nell'arco della struttura più vasta, nel discorso che incalza. Beethoven rivoluzionario come può essere rivoluzionario il gesto del grande sarto che strappa la fodera dalla classica giacca: un Beethoven destrutturato. Alla fine escono tutti insieme ma poi torna il direttore e si porta dentro anche gli orchestrali. E' giusto che sia così perchè nasce più che mai da un lavoro di gruppo l'esito altissimo di questo concerto.
Era cominciato con l'altro colpo di teatro, il primo. In un cono di luce c'è il cornista Stephan Dohr che attacca il prologo della Serenata di Britten in mezzo agli archi e poi si sposta al proscenio per suonare l'epilogo nascosto, dietro la camera acustica. Il tenore è Philip Langridge che distilla con eccezionale magistero stilistico gli effetti di queste pagine dove i versi di Blake o Keats si offrono sulla translucida matassa orchestrale predisposta da Britten. Dopo c'è Martha Argerich che si lascia condurre al pianoforte da Abbado. Ritorno carico di emozione nel segno di Beethoven. Lui le prepara un'orchestra carica di colori, un Beethoven pieno di mordente e di passione che è una sorpresa per tutti. E lei dalla tastiera ci mette una incredibile carica espressiva e si sente che il secondo concerto di Beethoven che in ordine cronologico in verità viene prima del primo è un concerto inaugurale, qualcosa di più di un prototipo o di una imitazione mozartiana. Se no come sarebbe possibile tanto fervore? Bellissima intesa fra i due perchè siano al di là di ogni ragionevole intesa.
E ascoltando questo Beethoven ci aspettano le sorprese. La prima è il bis della Argerich che sgrana per il pubblico in delirio un Bach commovente e allucinato. La seconda è il Beethoven di Abbado, quello della Prima sinfonia, liberato da calcoli e strutture e tuffato nel suono caldo e dettagliato della sua orchestra di giovani. L'interpretazione presa così, al volo. Basta solo citare l'avvio dell'ultimo tempo con l'attacco elastico dell'Adagio alleggerito di peso per far scattare meglio l'Allegro che segue. Neanche i Berliner arriverebbero così lontano con la sinfonia e con l'ouverture che ci aspetta come bis. Ed è bello che sia così.

 

 

La Stampa Venerdì 18 Febbraio 2000

Venerdì 18 Febbraio 2000

Il direttore: «I giovani musicisti sono più liberi e hanno una grande voglia di studiare»

ABBADO Requiem per le grandi orchestre

Sandro Cappelletto
FERRARA I fatti. Il primo gennaio Claudio Abbado cancella due opere in programma la prossima estate a Salisburgo rifiutando il sistema delle «rotazioni» degli orchestrali tradizionalmente adottato dai Filarmonici di Vienna: non stiamo parlando della Corale di Vigodarzere, ma di una delle orchestre occidentali più cariche di storia e di onori. A metà febbraio, dopo quaranta giorni di prove con la Mahler Chamber Orchestra, un giovane complesso di giovanissimi interpreti, affronta per la prima volta «Così fan tutte» di Mozart ed esegue - l'ultimo ieri sera, a favore del FAI - due concerti beethoveniani. In entrambi i casi si tratta di interpretazioni innovative. Il segnale è netto, destinato ad assumere nel tempo un valore strategico, con conseguenze culturali ed economiche tutte da scoprire.
Un'orchestra, sia pure la più professionale e stimabile delle grandi orchestre internazionali, è una macchina con ritmi produttivi implacabili: ha la sua storia, il suo repertorio, il suo suono; oltre alle ferie e al giorni di riposo, non ha - stiamo ovviamente parlando dei livelli di eccellenza - tempo libero, tra concerti, tournée, incisioni; al suo interno si formano gruppi cameristici a loro volta colmi di impegni per cui le prime parti possono sparire per settimane, impegnate altrove. In un'orchestra, come in ogni grande ufficio, si creano simpatie, antipatie, coalizioni sindacali, giusti diritti e frustanti risentimenti. E' la routine, magari un'eccelsa routine, ma sempre routine. E la storia, vecchia ormai di centocinquantanni, delle relazioni tra orchestre stabili e direttori è un romanzo d'amore e di conflitti, di una reciproca dipendenza, bella finché dura. Rapporto, come ha definitivamente raccontato Theodor Adorno, che può arrivare a estasianti vertici di sadomasochismo. Ma se un artista vuole sperimentare un organico diverso, un suono nuovo, un fraseggio inconsueto, anche la migliore orchestra può diventare un handicap. «I ragazzi della Mahler, li senti che continuano a suonare e provare anche quando la prova è finita, la loro disponibilità è totale e la tua libertà aumenta», dice Abbado che nel 2002, per propria volontà non rinnoverà l'incarico di direttore musicale dei Filarmonici di Berlino. La formazione di complessi di giovani di nazionalità diverse, la creazione di laboratori orchestrali è un tratto costante dell'attività del direttore, da quando, nel 1978, ha fondato l'Orchestra dei giovani della Comunità Europea. Passare una giornata con questi ragazzi, mentre stanno vivendo un'avventura che è professionale e morale, significa ricevere una sberla d'entusiasmo: durerà, finirà, cambierà, ma intanto c'è, contagiosa, liberante.
Per la Prima Sinfonia di Beethoven e per il Secondo Concerto per pianoforte, Abbado ha fatto suonare dieci violini primi, otto secondi, sei viole, cinque violoncelli, tre contrabbassi, tutti i fiati a due: meno della metà del normale organico di una grande orchestra. E il suono non ne esce smingherlito, procede anzi seguendo percorsi di condensazione e rarefazione, di addensamento materico e di leggerissimo fraseggio che rende il senso della novità portata da Beethoven nella storia del sinfonismo. Abbado non sembra interessato al suono «bello», «pulito»: gli piace di più comprimerlo e rilasciarlo, irruvidirlo: dentro questo guscio, appaiono più nette morbidezze e sensualità. Svetta la libertà «gaucha» di Martha Argerich che nel Secondo Concerto inventa sbalzi di dinamica rapinosi, anticipi assassini e regala come bis un Preludio di Bach volante eppure correttissimo, non una nota, non un'entrata saltate. La serata, iniziata con la Serenata per tenore e corno di Britten (Philip Langridge e Stefan Dohr i solisti) sì è chiusa con l'ouverture dall'«Egmont»: di fronte all'irruenza febbrile dell'interpretazione, il Teatro Comunale di Ferrara ha dimenticato ogni bon ton a vantaggio di sanguigni entusiasmi.

Il Resto del Carlino, 18 Febbraio

Abbado
scopre i tasti segreti
di Beethoven

FERRARA — Dopo le meraviglie sonore mozartiane del Così fan tutte, Claudio Abbado ha voluto suggellare la sua permanenza ferrarese con un trionfale concerto sinfonico. I quasi cinquanta giorni di lavoro del maestro con la Mahler Chamber Orchestra hanno portato un complesso, di per sè eccellente, a un grado di efficienza, duttilità e perfezione stupefacenti. Se ne sono colti immediatamente gli effetti in una rara e struggente ampia composizione di Benjamin Britten, Serenade per tenore, corno e orchestra op. 31. Sei liriche di importanti poeti inglesi scandiscono i vari stati d'animo, per lo più di ispirazione meditativa e melanconica, che percorrono lo spartito. Con toni di autentica vocalità cameristica il tenore Philip Langridge ha fatto rivivere le toccanti intuizioni di Britten, mentre il cornista Stefan Dohr ha realizzato con fine musicalità i due brani solistici e gli interventi concertanti.
Una solista di assoluta eccezione come Martha Argerich ha proposto il Concerto n. 2 per pianoforte e orchestra di Beethoven, opera di solare bellezza, espressione delle possibilità tecniche e comunicative di un virtuoso concertista come era il giovane Beethoven negli ultimi anni del '700. Di rara bellezza la fluidità del fraseggio, così come l'osmosi delle sonorità tra orchestra e strumenti solista. Pregevole è apparso il processo di avvicinamento di Abbado ad alcuni fondamentali criteri dell'espressività orchestrale tardo settecentesca come la messa di voce, le strappate ecc. che conferiscono una carica di autenticità anche cronologica all'opera interpretata. Alla gioiosità e al virtuosismo esibito del primo tempo, proposto dalla Argerich con un tocco adamantino e un vitalismo travolgente, ha fatto seguito un Adagio di toccante fascino. Il Molto allegro finale è stato un caleidoscopio di invenzioni che ha trascinato il pubblico all'entusiasmo. Innumerevoli chiamate alla ribalta hanno costretto la pianista a concedere un brillante fuori programma.
Se qualcuno crede che la Prima Sinfonia di Beethoven sia più facile della Nona si sbaglia. Abbado ha costruito la sua lettura su una gamma di sonorità così diversificate fra loro, e l'orchestra è stata così sicura nel seguire fin nelle più sottili sfumature le sue direttive, che ne è sbocciata un'interpretazione di rara leggerezza e, allo stesso tempo di una logicità da lasciare senza fiato. In questo orizzonte sonoro, che affonda le radici negli ultimi capolavori sinfonici di Mozart e Haydn, Abbado ha innestato con assoluta logicità la partitura beethoveniana nel segno di una complessa e innovativa realtà strutturale e ideale percepibile soprattutto nel breve ma originale sviluppo del primo movimento. Al clima estatico e contemplativo dell'Andante ha fatto seguito il singolare e imperioso Minuetto, ben lontano dagli stereotipi di un '700 incipriato. Da manuale è stato poi l'attacco dell'ultimo tempo. Dopo l'introduzione per scalettine esitanti, è scoccata la partenza vertiginosa in un'apoteosi di straordinaria vitalità ritmica. In questo brano la gamma dei colori orchestrali e quella dei piano e dei forte ha avuto una così differenziata e logica applicazione da apparire quasi inedita.
Bravissima la Mahler Chamber Orchestra, superiore a ogni aggettivo l'impegno di Abbado nel perseguire un'interpretzione di formidabile profondità intellettuale e, insieme, di livello tecnico difficilmente superabile.
Le ovazioni del teatro costringevano il maestro e la sua orchestra a un fuori programma emozionante, l'Egmont di Beethoven. Tenerezza e dramma interiore percorrono questa grande e drammatica pagina che nel finale assume una carica epica con gli squilli delle trombe, così simili a quelli della Leonora. Il pubblico in delirio ha richiamato alla ribalta il direttore per l'ennesima volta quando già l'orchestra aveva lasciato il palcoscenico.
di Adriano Cavicchi

 


 

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