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Il Sole 24 Ore Domenica 23 Aprile 2000 Ci vuole grandissimo coraggio per ritornare, dopo moltissimo tempo, su di un'opera - il Simon Boccanegra di Giuseppe Verdi - della quale s'è già dato un allestimento (con Giorgio Strehler) entrato nella storia non solo del teatro alla Scala, ma del teatro moderno, un'incisione discografica altrettanto storica, arrivata a coronamento di una lunga serie di recite, con un cast memorabile, per la quale, insomma, si sono profuse energie artistiche al massimo livello. Eppure Claudio Abbado, dopo quasi trent'anni, è riuscito ancora una volta a superarsi, dimostrando non solo la straordinaria,inarrivabile grandezza di Verdi, ma anche una costante, incessante ricerca attorno ad alcuni capisaldi della sua personale storia d'interprete. La quale, c'è da esserne certi, regalerà ancora al pubblico - non a quello milanese, però, privato per motivi assurdi della sua presenza sui palcoscenici cittadini - momenti ricchi di assoluto valore artistico e culturale. Sì, perché l'allestimento del Simone visto a Salisburgo in occasione del Festival di Pasqua (per la regia di Peter Stein, scene di Stefan Mayer e costumi di Moidele Bickel) è stato soprattutto un'occasione di cultura, con un unico neo: quello d'essere riservata ai pochi fortunati che possono permettersi di sborsare cifre ingenti per assistere allo spettacolo, tra l'altro con una sola replica (domani, 24 aprile); per fortuna, tale produzione verrà riproposta nel 2002 al Maggio Musicale Fiorentino. Infatti si è di fronte a uno spettacolo praticamente perfetto; pur conoscendo in maniera unica questa partitura (che proprio il maestro milanese contribuì a riscoprire: è noto che il Simone, dopo il fiasco veneziano del 1857, venne rimaneggiato da Verdi nel 1881 con la collaborazione di Arrigo Boito, senza comunque conseguire mai il gradimento di pubblico che invece gli è dovuto per l'altissima statura artistica), Abbado è riuscito - nella sua lettura orchestrale - ad approfondire ancora non solo i dettagli (per esempio, nel magnifico Preludio del Prologo, i tromboni suonano in maniera più tagliente, più cupa possibile, proprio per creare un contrappeso sonoro drammatico alla dolcissima frase degli archi che apre l'opera), ma tutta la concezione generale del lavoro. La quale risuona ancora più violentemente tragica, pessimistica: Simone, Doge della Repubblica di Genova, amato dalla plebe, avversato dai patrizi, si dibatte nel consueto, tremendo dilemma, ossia l'oscillazione tra gli affetti privati e la ragion di Stato. La figlia amatissima, ritrovata dopo lunghi anni, è innamorata di un giovane che milita politicamente nel campo a lui avverso e che per giunta osa complottargli contro apertamente. Tale tema, caro a tutto il teatro di Verdi, trova in quest'opera accenti addirittura disperati: la solitudine dell'Uomo, di fronte ai drammi insolubili dell'esistenza, è assoluta. Così, negli interstizi musicali lasciati liberi dal testo (Abbado, ben conoscendo l'importanza che Verdi attribuiva alla "parola scenica", non copre nemmeno una sillaba), il maestro italiano scatena la sua orchestra - i grandissimi Berliner Philharmoniker - costruendo un edificio sonoro di poderosa cupezza. Opera variegata quante altre mai, il Simone chiede al concertatore grande flessibilità nella narrazione per ricucire i lacerti di formule musicali, che Verdi eredita dal melodramma (arie, cabalette, concertati) e che posiziona in maniera del tutto nuova, lacerti che hanno un incedere solo apparentemente frammentario all'interno della struttura formale. Su questo terreno Abbado non ha rivali, regalando agli ascoltatori un'interpretazione ove la tensione s'articola progressivamente, senza cedere nemmeno per un istante, dalla prima all'ultima nota. Allo stesso modo, lo spettacolo firmato da Stein è memorabile; il regista tedesco penetra profondamente nei recessi dell'animo di Simone, mettendone a nudo, come s'accennava sopra, la tremenda solitudine. La grande scena del III atto, quando il protagonista, già morente (a causa d'un veleno fattogli bere da mano perfida), si rivolge al mare per respirarne la brezza, unico e ultimo refrigerio, è d'una bellezza struggente: Simone, solo in mezzo allo smisurato palco del Grosses Festspielhaus, rivolge le spalle al pubblico e sullo sfondo viene proiettato un mare enorme, anch'esso livido e agitato. Tutta la lettura scenica di Stein è orientata all'estrema essenzialità, sempre in accordo con la musica: Verdi dipinge con gli strumenti gli stati d'animo, al regista spetta il compito (con un'operazione solo apparentemente "semplice") d'assecondarli; in tal modo, capillare è il lavoro sui cantanti, "costretti" a recitare dall'inizio alla fine. Anche gli spazi scenici si creano e si ritraggono con la musica; per esempio, nel Prologo, quattro pannelli, ispirati alle prospettive di Piero della Francesca, si aprono progressivamente, in accordo con la partitura, proprio per dare l'idea dell'accorrere della folla nelle piazze, alla notizia della candidatura, e poi del_l'elezione, di Simone alla carica dogale. Per completare il capolavoro, ci voleva un gruppo di cantanti all'altezza della situazione, e si sono avuti. Carlo Guelfi, grandissimo protagonista, ha dimostrato di non temere l'ombra di due artisti della statura di Piero Cappuccilli e Renato Bruson, fornendo un'interpretazione affatto personale: il suo è un doge cupo ma indomito, deciso ad affrontare le asperità della vita combattendo sino alla fine. Karita Mattila (Amelia) non avrà forse una voce grandissima, ma la sa usare molto bene, contribuendo ad alzare la temperie drammaturgica; Roberto Alagna è uno straordinario Gabriele Adorno, personaggio da lui reso giovane ed esuberante, così come Lucio Gallo interpreta un ottimo Paolo Albiani, bieco e perfido. Meno convincente il Fiesco di Julian Kostantinov, che comunque supera abbondantemente la sufficienza. A completare degnamente il tutto, si aggiunga la buonissima prova dell'European Festival Chorus, diretto da Winfred Maczewski. |
La Repubblica, 17 aprile 2000, pagina 40
dal nostro inviato MICHELANGELO ZURLETTI SALISBURGO - Simon Boccanegra, "Macbeth" e "Don Carlos" erano le opere di cui Verdi avvertiva maggiormente la necessità di una revisione. Erano i suoi "tavoli zoppi": ne vedeva i valori ma anche l'intermittenza nella distribuzione di quei pregi, ne avvertiva la scarsa organicità. Li sottopose a revisione, con gli esiti che tutti conoscono. E tuttavia qualcosa è rimasto a tenere indietro la popolarità dai tre lavori: sono tutti e tre tra gli esiti massimi verdiani, ma il pubblico continua a preferirne altri. Boccanegra, del 1857, fu rielaborato nel 1881, con l'intervento di Boito a correggere l'artigianale manufatto di Piave, il cui principale difetto era il pastrocchio della vicenda. |
La Repubblica, 17 aprile 2000, pagina 40
dal nostro inviato LEONETTA BENTIVOGLIO SALISBURGO - Venti minuti di applausi per Abbado in stato di grazia: ha segnato un trionfo personale del maestro dei Berliner il debutto, sabato sera, del Simon Boccanegra nel nuovo allestimento di Peter Stein. Opera tra le più amate da un direttore sempre più intensamente verdiano, questo Simone giunge a conferma di quanto, due giorni fa, Abbado raccontava a Repubblica: la sua voglia di darsi sempre più, in futuro, ai singoli progetti con tutto il tempo dell'appro- |
Trionfo del maestro con Simon Boccanegra. "Preparo un concerto assieme al trombettista Marsalis" Abbado: dopo Salisburgo anche un omaggio al jazz DAL NOSTRO INVIATO
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Infine, sic transit...gli anni si succedono, e non si assomigliano...ma Pasqua è resurrezione...
Il CORRIERE DELLA SERA, 18 aprile 2000 ELZEVIRO Abbado a Salisburgo Nel "Boccanegra" di PAOLO ISOTTA |