LA CRONACA
 DEL WANDERER
N°60

Il gioco della vita

Guy Cherqui


Così fan tutte, prova generale: finale Atto I. Con un gesto deciso, Claudio Abbado impone ad uno dei cantanti di saltare letteralmente verso l’uscita, mentre l’orchestra accelera con ritmo pressoché insostenibile il crescendo finale . Tutto sta nello guardo del direttore, che sostiene canto e musica, ma esige anche l’accordo totale con la regia. Ecco il vero direttore a teatro, che non può concepire uno spettacolo senza accordo e coerenza tra tutti i componenti . Ecco quello che ci è stato presentato a Ferrara, quattro anni dopo una serie di rappresentazioni già eccezionali.

Claudio Abbado non conosce la parola routine. Riprendere uno spettacolo significa rivisitarlo completamente, rileggere e ristudiare la partitura…Certi hanno criticato il modo che ha di tornare sempre a opere già studiate e interpretate in passato, e di aprire molto cautamente il suo repertorio a delle novità: ma questi ritorni sono sempre un “andare oltre” oppure un “andare più avanti”. Con Abbado, non esiste la “ripresa” come in genere la si intende.

Ecco perché bisognerebbe guardare questo spettacolo con l’occhio nuovo, « naïf », della prima volta, anche se abbiamo ben presente in testa lo spettacolo di quattro anni fa.

La concezione d’insieme della serata rimane la stessa: l’intelligenza della regia di Mario Martone sta nell’apparente semplicità dei mezzi al servizio di possibilità multiple nell’interpretazione.

Si è scritto molto su Così fan tutte, che può essere sia l’opera “bonboniera” per eccellenza oppure la costruzione intellettuale assoluta. Tra Michael Hampe (a Salisburgo 20 anni fa’ e alla Scala) e Hans Neuenfels a Salisburgo, durante la gestione Mortier, c’è un abisso. Il concetto di Martone sta esattamente tra i due: questo spettacolo può essere letto e capito in modo completamente “naïf”, e lasciarsi portare dalla burla; ma si può anche scavare nelle intenzioni, e sboccare su un abisso dove tutto si risponde.

Come a suo tempo Luca Ronconi, Mario Martone ci rinvia all’idea di Teatro, vita come teatro, spazio teatrale come metafora della vita, relazioni umane gestite come da copione teatrale.

Il dispositivo scenico è apparentemente molto semplice, strutturato attorno all’idea di palcoscenico a vari livelli: non siamo a Napoli, ma in una Napoli teatrale, dove il mare è un immagine e le navi tele dipinte. Il centro stesso dello spazio è un palcoscenico sul palcoscenico, dove due letti s’impongono come inizio e fine di ogni cosa: le ragazze all’inizio lo usano per dormirci , mentre alla fine l’ultima immagine dello spettacolo ci offre il salto sul letto delle due copie, non per dormire però, si suppone… In fondo, la storia gira sull’andare a letto…La scena finale tra l’altro diventa un palcoscenico in più, come le scene delle compagnie teatrali ambulanti, delimitate da lenzuola. Si può anche supporre che Don Alfonso paghi una compagnia di attori per giocare la burla. Lo spazio è unico e sempre diverso: pedane sono disposte attorno all’orchestra che permettono di utilizzare palchi e anche lati del teatro, oppure la sala stessa come spazio di gioco. Abbado ama tra l’altro questi dispositivi, già visti nel Viaggio a Reims di Ronconi, oppure nel Don Giovanni ferrarese di Lorenzo Mariani.

Quando il direttore, all’inizio del secondo atto, arriva nell’orchestra venendo non da sotto, ma dal palcoscenico, e scende sul podio invece di salirci, tutto è detto: non c’è più palcoscenico, fossa e sala, c’è uno spazio unico dove il pubblico sente sempre la vicinanza fisica del cantante, dove si intrecciano sala e scena: Despina e Don Alfonso – i due registi della farsa- hanno i loro “appartamenti” in un palco laterale….Di fronte a questo spazio di gioco che si dimostra unico, totale, per una storia che in fondo è anche la nostra, dobbiamo per forza anche noi accettare le convenzioni: i due amanti sono cosi leggermente travestiti che in due minuti si tolgono il turbante e hanno come semplice segno di travestimento un baffo leggero disegnato da Don Alfonso, truccatore per eccellenza; amanti cosi interscambiabili, laddove ciascuno si credeva unico “perché era lui, perché ero io”: nell’amore invece uno vale l’altro e la più “bella” storia d’amore è una farsa (oppure, con meno cinismo, è l’amore visto come puro gioco e pura gioia) dove tutto finisce comunque a letto.

L’interscambiabilità degli esseri è un tema centrale della regia di Martone, le sorelle sono simili e diverse, simili perché sorelle, diverse per il carattere (una più riflessiva, l’altra più leggera) e anche per il letto (uno di legno, uno di metallo…) ; fin dall’inizio le due donne giocano a scambiarsi e a rubarsi il ritratto dei loro cicisbeo, anticipo della storia che seguirà. Non si sa più chi è con chi, e ciò non ha nessuna importanza! (Neuenfels a Salisburgo, in una regia che valeva di più di quanto detto soprattutto in Italia, li aveva vestiti tutti – donne e uomini- nello stesso modo, e dalla sala era ben difficile capire chi era chi)

La visione del mondo che viene proposta è quella dei rapporti degli individui tra di loro oggi, con la rivendicazione dell’autonomia delle scelte, e della libertà dei corpi, e la morale di Despina , quella della piena indipendenza rivendicata dalla donna disingannata dalle illusioni dei sentimenti, è rappresentata benissimo dalla maturità di Daniela Mazzucato. In questo senso l’opera potrebbe anche essere il momento del passaggio all’età adulta, dove coppie giovani e illuse imparano che l’alchimia amorosa è fatta anche di apparenze; questa consapevolezza le convince finalmente a un matrimonio “di ragione” più che di “inclinazione”. Forse si può vedere nell’immagine finale, dove le due coppie saltano su un letto unico, un altro possibile scambio fra le due coppie, o una vita di coppia aperta come nel vecchio film di Coline Serreau “Pourquoi pas?”. In ogni caso, lo spazio aperto dalla lettura del libretto permette tutte le possibilità….

La coppia Despina-Alfonso è tra l’altro molto stimolante nel ruolo di regista del libretto, e questo risalta in tutte e due le compagnie sentite a Ferrara. La coppia Mazzucato-Raimondi, coppia matura alla Laclos, fatta di due libertini disillusi, è in fondo più vicina ad un certo concetto dei rapporti amorosi nel settecento (vedere Laclos “Le relazioni pericolose” oppure Crébillon fils “Les égarements du corps et de l’esprit”), mentre l’altra coppia Forte-Concetti, meno scaltra e meno furba dell’altra coppia, più giovane, più propensa all’immediata soddisfazione dei sensi, ci restituisce un’immagine forse più veritiera dell’avvenire delle due coppie-cavie. Cinzia Forte e Andrea Concetti giocano la semplice farsa, la burla di Falstaff, perché “tutto il mondo è burla!”, Ruggero Raimondi e Daniela Mazzucato sono alchimisti dell’amore, come nella regia di Neuenfels, dove iniziavano un’esperienza da entomologo: osservare le bestioline in una scatola, giocare ai giochi dell’amore. In questo senso la carica storica e affettiva di Ruggero Raimondi è insostituibile: quello che per tutti gli spettatori fu il Don Giovanni degli 30 ultimi anni rimane un “don giovannesco” teorico del principio del piacere e la sua presenza fisica è schiacciante. Non era così utile porre sul palcoscenico qualche pietra di lava per evocare gli inferni dove Don Giovanni si muove e dai quali torna sotto i panni di Don Alfonso! L’inferno non ha nulla a che vedere qui: non siamo nella metafisica ma nell’empirismo puro, compreso quando Despina vestita da dottore diventa caricatura del magnetismo di Messmer!

Al servizio dell’impresa, al centro del sistema l’orchestra e Claudio Abbado. La meccanica diabolica del libretto è servita da una meccanica orchestrale perfettamente regolata. L’armonia tra direttore e regista è totale: il trattamento del continuo con cembalo e cello dà colore particolare ai recitativi. Il Mozart che abbiamo sentito è un Mozart vivo, stupendamente giovane, qualche volta violento e crudele, un Mozart colore “Amadeus” nella visione del film di Forman; non c’è compiacimento zuccherato, i ritmi sono sincopati, i concertati un infernale vortice, ma i momenti lirici sono colorati in modo più malinconico del solito, più buio, aprendo uno spazio infinito alla sofferenza. L’accompagnamento delle arie di Fiordiligi è sotto questo profilo esemplare e i dubbi del personaggio si esprimono quasi meglio in orchestra che nel canto. In questo Mozart assai rude, gioia e piacere si alternano con sciagura e disperazione, perché siamo sempre nei sentimenti estremi dove farsa e sorriso lasciano spazio molto velocemente al rovescio della medaglia. Dalla leggerezza del dialogo Ferrando-Guglielmo, dove i due giovani non emettono alcun dubbio sulla fedeltà delle amanti, si apre lo spazio delle lacrime e della tristezza, anzi della assoluta disperazione, appena Guglielmo invita invece ad avere dei dubbi su Dorabella…Questa visione poco armoniosa dei sentimenti umani, visione cruda dove l’uomo è nudo, è servita dalla direzione musicale, plasmata sulla vita e sul respiro degli esseri: basta vedere come Abbado segue ogni artista, e si fa carico con l’orchestra tutta anche delle loro difficoltà.

In una visione cosi globale e cosi totale, conta l’effetto d’insieme, e sarebbe vano dare premi a tale cantante piuttosto che a tal altro: la prima qualità delle due compagnie di canto è l’adesione totale al progetto della regia e della direzione musicale. Sotto questo profilo, darei una preferenza per omogeneità alla compagnia più “giovane” (Gvazava, Doufexis, Forte, Concetti, Werba, Pirgu), che ha meno esperienza, meno tecnicità dell’altra vista durante la generale (Harnisch, Antonacci, Mazzucato, Raimondi, Ulivieri, Workman). Rimane comunque che se vogliamo a tutti costi individuare ogni artista e dare un parere almeno parziale sulle prestazioni, dobbiamo esprimere qualche riserva su certi cantanti: Rachel Harnisch (Fiordiligi) , malgrado una certa rotondità di una voce ben appoggiata, ha dei gravi completamente timbrati; l’altra Fiordiligi, Eteri Gvazava, emette suoni fissi, tecnicamente molto lontani di quello che richiede la parte, la Dorabella anonima e senza espressività di Stella Doufexis, il tenore Saimir Pirgu apprezzato per la naturalezza del canto, meno dalle qualità tecniche dei passaggi (al contrario di un Charles Workman con il suo canto ipercontrollato e ipertecnico, al limite dell’artificiale, stanco l'altra sera a Modena). Rimangono la straordinaria Anna Caterina Antonacci, espressiva, fresca, dal canto maturo e facile, Ulivieri sempre giovanile con una voce sempre più calda e presente, e le due coppie opposte dallo stile, ma ciascuno impeccabile nel suo ruolo, Daniela Mazzucato, impagabile furbina, e Ruggero Raimondi, la cui voce non è più quella , ma la cui presenza fisica rimane formidabile nel ruolo del personaggio distanziato, vagamente annoiato di dovere dimostrare l’evidenza: un vero punto di riferimento nella sottilità dell’interpretazione. Di fronte a loro, Cinzia Forte, più vocalista e più giovane, più fresca, meno cinica, meno pericolosa, e Andrea Concetti, più elegante, più giocatore e meno diabolico, più impegnato anche nei meandri del desiderio, rispetto al suo grande collega Raimondi.

Si capisce che i problemi di compagnia di canto, in un altro contesto musicale e scenico avrebbero potuto pesare di più nell’apprezzamento dello spettacolo.

Grazie all’intelligenza dell’impresa collettiva, siamo usciti molto soddisfatti, perché amiamo questo Mozart certo lacerante e lacerato, certo tagliente e cinico, ma pieno di tenerezze represse, lontano dal Mozart-caramella che tanti teatri ci offrono. Il grande architetto di tutto ciò si chiama ovviamente Claudio Abbado, che tiene tutto come l’Atlante dello spettacolo, e che fa dimenticare le imperfezioni: non siamo a teatro per trilli (non fatti) o acrobazie vocali(assenti), ma per vivere e capire il gioco della vita, insieme a Mozart, ed è questo ciò che conta.



















































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