Fidelio è un’opera difficile da molti punti vista. Da una parte la sua drammaturgia disordinata, troppo eterogenea tra prima e seconda parte, dall’altra la sua esitazione tra l’operina comica (l’azione tra Jacquino e Marzellina) e il “Grand Opéra” a soggetto nobile (secondo atto), e infine le difficoltà del canto che ne derivano , particolarmente per il ruoli di Leonore e Florestan, tutto questo fa si che ogni rappresentazione è a rischio: tanti registi, tanti cantanti hanno conosciuto problemi davanti a questo monumento unico del percorso di Beethoven. Due esempi solo: il grande Giorgio Strehler allo Châtelet e alla Scala ha notevolmente perso la scommessa, e altrove ho sentito grandissimi cantanti in enormi difficoltà : Cheryl Studer e Ben Heppner a Salisburgo con Solti nel 1996, più in dietro nel Tempo, mi ricordo il grande e allora giovane Siegfried Jerusalem naufragare in una rappresentazione concertante a Parigi sotto la direzione di Barenboim.
Si considera Fidelio un’opera rivoluzionaria, che esalta la libertà e i diritti dell’uomo . Si tratta anche di un’opera profondamente ancorata nelle mode e nelle tradizioni del tempo, e particolarmente la tradizione dell’”Opéra à sauvetage”, tra cui la Lodoiska di Cherubini è l’esempio più brillante che Riccardo Muti ci ha fatto felicemente scoprire alla Scala con una regia straordinaria di Luca Ronconi, Non è un caso se l’eroe liberatorio nella Lodoiska si chiama Floreski, e l’eroe prigioniero nel Fidelio Florestan , Infatti, se molti dicono che la prima parte del Fidelio è piuttosto mozartiana, preferirei legarla di più al mondo di Haydn e del fine Settecento, compreso Cherubini e forse anche Spontini: Beethoven, Cherubini, Spontini…chi ispira chi ? l’ispiratore non è forse quello a chi si crede ! Intanto ringraziamo Riccardo Muti per il suo paziente e insostituibile lavoro su questo periodo, per averci rivelato in modo luminoso e illuminista - queste opere poco rappresentate per averci fatto capire i legami tessuti tra questi musicisti.
La problematica di Fidelio è dunque complessa. E ogni rappresentazione di Fidelio è in qualche modo una sfida e una curiosità, ecco perché ascoltare Sir Simon Rattle a capo dei Berliner interpretare Fidelio era un privilegio ed un grande avvenimento.
All’abbadiano purtroppo non è stato dato la gioia di ascoltare Claudio Abbado dirigere l’opera di Beethoven. Fidelio infatti era uno dei progetti previsti alla Scala (con “Il Barbiere di Siviglia”) e cancellati dopo “L’affare Elektra”. Speriamo che sia ancora nelle intenzioni di Claudio di offrircelo a Lucerna, perché ascoltare il Fidelio diretto da Abbado, dopo i suoi sconvolgenti, incredibili cicli Beethoven degli anni 2000 metterebbe senza dubbio tutti d’accordo!
Il Wanderer era dunque a Berlino, ricordando nello stesso tempo un anno prima gli ultimi concerti in questa sala di Claudio Abbado…Non essendo stato purtroppo a Salisburgo, il Wanderer pero ha seguito la trasmissione televisiva su Arte e ha potuto capire qualcosa della regia di Nikolaus Lehnhoff.
La prima impressione è ancora bisogna ripeterlo quella di un’opera terribile per i cantanti principali: Florestan inizia la sua Aria in apertura del secondo atto completamente a freddo e “Gott” la prima parola, è stata spessa vittima di problemi di impostazione vocale e di intonazione. Non è il caso di Jon Villars, voce potente (fu Enea nei Troiani a Salisburgo qualche anno fa ), cantante pulito, con una voce potente, uno stile elegante, un po’ freddo..ma il crescendo finale dell’aria ha prodotto i suoi effetti sul soffio e la voce…Jon Villars non è ancora Jon Vickers.
Per Leonora, bisogna avere una duttilità latina, una potenza wagneriana, un timbro straussiano: nessun suono fisso, tutto in sottigliezza, agilità, forza, ma dal primo atto a poco a poco epico (Aria “Abscheulicher”) al secondo atto quasi sempre teso, la voce è sollecitata in tutte le sue possibilità, dallo smalto al velluto. Negli ultimi vent’anni, Gwyneth Jones e Hildegard Behrens, mostri sacri della scena, hanno vinto la scommessa e ancora non sempre, più indietro, Janowitz, tutta nel lirismo, e Nilsson, tutta nella drammaticità. Più lontano ancora nel tempo, la Resnik, si la giovanissima Regina Resnik apriva con Leonora (e Bruno Walter) una carriera fuori da comune. Si vede che Leonora è una parte riservata ai mostri, una parte che Waltraud Meyer a difeso sui grandi palcoscenici in modo ardente , potente pero mai sconvolgente, perché Meyer ha la potenza e l’energia, ma non ha lirismo, agilità, duttilità necessarie per la parte.
Angela Denoke era Leonora a Berlino e Salisburgo: essa non delude. Questa donna molto bella ha il “physique du rôle” , una voce, senza contesto, se non la voce. Non tiene sempre forse la distanza, perché se certi suoni sono potenti e chiari, altri sono corti, con l’effetto indotto sull’omogeneità: rimane giusto dire che la prestazione è bella e che la Denoke ne esce con onore.
Tra gli altri si può ritenere il Rocco molto umano di Laszlò Polgar con la sua voce un po’ stanca e velata, ma perché no per Rocco ? Alan Held è il cattivo Pizzaro, cattivo, ma non accattivante, senza grande originalità, il Jacquino anonimo di Rainer Trost, buon cantante un po’ sotto tono di fronte alla deliziosa Marzellina di Juliane Banse convincente assai questa volta non lo è sempre. Infine, last but not least, un lusso incredibile nella parte breve di Don Fernando, Thomas Quasthoff che riesce ovviamente a campare un personaggio assai forte.
Il Coro Arnold Schönberg, come sempre, dimostra di essere uno dei più grandi cori del mondo e domina le ultime minute, dirette con ritmo infernale da Sir Simon Rattle.
Il Beethoven di Sir Simon Rattle non ha finito si stupirci, e rimane ancora tutto da scoprire a poco a poco. Una lettura sempre contrastata, sempre di grande rilievo, come queste statue greche i cui lineamenti vengono accentuati per vederli meglio da lontano, una lettura con forte impronta settecentesca, - si sa che Sir Simon ne è uno dei grandi specialisti ( bisogna ascoltare il suo Haydn o il suo Rameau, letteralmente incredibili di novità e di energia vitale) una lettura di Beethoven in divenire di cui non si sa ancora se privilegia energia, dinamismo, spettacolare, ma una lettura raramente emozionante, spesso più dimostrativa e dunque qualche volta superficiale.
Mi ricordo una Pastorale con Birmimgham a Salisburgo qualche anno fa, con une secondo tempo che mi lasciò a bocca aperta, ma con un’ ultimo tempo noioso assai che mi lasciò di pietra. Gli ultimi concerti ascoltati (una nona a Vienna con i Wiener, un concerto n°3 a Berlino) non mi hanno sempre convinto. Questo Fidelio berlinese invece mi ha spesso sedotto, sempre interessato, raramente emozionato. E quello che ho visto in TV della regia di Salisburgo mi è parso di un modernismo “falsa riga”: il discorso e la drammaturgia rimangono classici, nessuna idea, se non qualche effetto nelle luci…ma faccio appello agli abbadiani presenti a Salisburgo, che essi rispondano!
Con Beethoven, forse più che con altri musicisti, l’ascoltatore ha l’impressione di un vero dialogo, diretto, subito chiaro, senza fioriture, di un discorso che racconta energia, sforzo, sofferenza, sublime, tenerezza, e questa impressione di essere in filo diretto con il discorso beethoveniano, solo per me almeno - Furtwängler e Abbado me lo hanno comunicato.
Il Beethoven di Abbado si colloca aldilà della dimostrazione, con un dialogo diretto in un ordine che è quasi spiritismo, diabolica quarta dimensione dove Dionisio imperversa . Ma Abbado, ahimè ! non ha mai diretto Fidelio.
Furtwängler ci schiaccia e nello stesso tempo ci commuove fino alle lacrime oh, questo crescendo all’inizio dell’ultimo quadro, nel Theater an der Wien nel 1953 ! . Anche lui sembra parlare direttamente con l’anima beethoveniana, pero l’anima rigorosa e luminosa di Apollo.
Rattle è ancora un lettore geniale perché quest’uomo ha qualcosa del genio della partitura : non parla, non commuove, si accontenta qualche volta di stupire. Grande, ma ancora esterno: non ci porta Beethoven direttamente nel nostro cuore ne nella nostra anima . Ma tutto questo senza dubbio verrà con la maturazione, con la distanza, con la conoscenza intima nel senso più forte delle partiture: non ha ancora 50 anni!
Ultimo ricordo…Verso la fine della sua vita, nel 1996, Sir Georg Solti dava con i Wiener a Salisburgo, in una regia profondamente giusta del grande Wernicke, anche lui sparito, con una Studer sfiatata e un Heppner corto, un Fidelio che credo di essere l’ho visto, rivisto, ascoltato, riascoltato oggi una leggenda ! Come quello del grande “Furt” nel 1953.
E se, per dominare quest’opera, bisognava essere sulla soglia dell’Eternità ?
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