La cronaca del Wanderer

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Il secondo Wanderer - nostro socio Vittorio Mascherpa -racconta la sua esperienza a Salisburgo (Pasqua 2002)

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cronaca 38 (Parsifal Salzburg)
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cronaca 39 (Parsifal Salzburg)
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cronaca 40 (Parsifal Salzburg)
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PERSONAGGI
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La cronaca del Wanderer
N°40



Salisburgo 2002


Due esecuzioni dirette da Claudio Abbado hanno aperto e concluso il secondo turno del Festival di Pasqua a Salisburgo: le oratoriali 'Scene dal Faust' di Robert Schumann e la realizzazione di 'Parsifal' in forma scenica, con la regia di Peter Stein e una compagnia di canto quasi completamente diversa da quella dello scorso novembre a Berlino.

Tra l'una e l'altra serata, due concerti orchestrali dei Berliner: con Mariss Jansons (la 'Scozzese' di Mendelssohn e 'Vita d'Eroe'), e poi con l'ottimo Christian Thielemann ('Fraternité' di Henze, la 'Riforma' di Mendelssohn e la 'Seconda' di Schumann). La 'matinée' di Pasqua ha consentito d'ascoltare la GMJO, condotta da Franz Welser-Möst in una memorabile 'Ottava' di Bruckner culminante in un 'Adagio' d'ammirevole serratezza. Nella tradizionale 'Fördererprobe' s'era presentata con il Concerto in sol minore di Bruch una giovanissima violinista giapponese, Sayaka Shoji, alla quale già nel 1999 l'impeccabile sicurezza e la maturità interpretativa avevano valso un premio Paganini. In questa occasione ha confermato le sue doti e ha dimostrato un carattere di grande fermezza.

Nelle 'Scene dal Faust', oltre alla straordinaria partecipazione di Thomas Quasthoff come protagonista, e ancor piú come Pater Seraphicus, mi ha colpito il rinnovamento della lettura di Abbado rispetto a quella registrata nel 1994. Se quel primo approccio a un'opera capitale non molto nota può sembrare, in certo modo, didascalico e non esente da un sospetto di compassatezza, l'esecuzione di venerdí 29 marzo ha posto in molto maggior rilievo sia le componenti d'inquietudine, direi quasi d'angoscia, che a partire dall'ouverture permeano le prime due parti, composte dopo che Wagner aveva dato 'Tannhäuser' e 'Lohengrin', sia l'illusione di serenità della terza parte, che risale a quasi dieci anni prima. Ricordo particolarmente la grande aria del Pater Seraphicus, durante la quale l'incanto del fraseggio e la bellezza timbrica di
Thomas Quasthoff sembravano sospendere il corso del tempo. Questo approccio ulteriormente interiorizzato porta con sé anche una piú convincente lettura dei debiti wagneriani, presenti in ispecie negli ultimi numeri della seconda parte, mentre appunto l'aria del Pater Seraphicus, assurta a vero 'climax' dell'opera, appare come l'esplicito antecedente dell'isoldiana 'Liebestod'. Ma l'eccellenza del direttore e del protagonista non deve indurre a trascurare i meriti di tutti gli
altri numerosi cantanti, per primi Albert Dohmen e Caroline Stein (in sostituzione di Amanda Roocroft), e dei tre splendidi cori, i due svedesi e le Voci Bianche di Tölz. Raramente m'era avvenuto di sentire una trasparenza e un equilibrio cosí convincenti ed espressivi come durante il quartetto di voci femminili della terza parte.

Come tutti sanno, le esecuzioni semisceniche di 'Parsifal' a Berlino erano risultate molto convincenti anche visivamente. Posso quindi comprendere una certa diffusa perplessità sulla regia di Peter Stein. A mio parere il punto essenziale è però tutt'altro: chi dopo Berlino è tornato a Salisburgo, s'aspettava forse di rivivere le stesse emozioni, dominate sostanzialmente dalla "laicità" e dall'ineguagliabile tensione dei due atti "esterni", cui aveva notevolmente contribuito anche la lettura corale e "storicizzante" del personaggio di Gurnemanz, offerta da un Kurt Moll in condizioni perfette. Cosí non è stato, ma non mi
sembra che vi sia di che dispiacersi. In questi mesi Abbado ha approfondito il significato e l'interpretazione dell'opera proprio in funzione delle modalità esecutive e dell'ambiente completamente diversi. Non è possibile trascurare, ad esempio, che la favolosa disposizione spaziale dei cori nelle scene del Gral realizzata nell'altissima, cilindrica sala della 'Philarmonie', non poteva essere ripetuta nel 'Grosses Festspielhaus', il cui palcoscenico è molto, forse troppo sviluppato in orizzontale; ancor meno è possibile sottovalutare che la gestualità scenica comporta sempre un diverso passo della vicenda musicale.
Inoltre l'esecuzione oratoriale aveva a che fare solo con la musica, con la sua logica interna, rivoluzionaria, seppure in diversa direzione, quanto in 'Tristano'. Invece, rappresentare il 'Parsifal' vuol dire confrontarsi anche con indicazioni sceniche la cui convergenza "ideologica" con la musica può essere opinabile: si può cercare di rispettarle, oppure stravolgerle per seguire un altrettanto opinabile "significato" autonomo della musica. Si tratta a mio parere d'un tipico falso problema: «ciò che è vivo e ciò che è morto» nell'opera di Wagner; ma gli interpreti, per nostra fortuna, non devono gareggiare con una pletora di microbeckmesser, hanno un compito piú impegnativo e importante, sono costretti a scelte ogni volta irredimibili.
L'esecuzione di Salisburgo ha voluto offrire una lettura del testo che lo restituisse nella sua completezza, anche nelle sue possibili contraddizioni. All'ascolto per radio può essere apparsa senz'altro meno impressionante e innovatrice di quella berlinese, a proposito della quale, con una sorta di zeugma critico, s'invocarono addirittura Brecht e la fondazione del teatro moderno («Tagesspiegel» del 1° dicembre). Provate però a risentire la musica associandola al ricordo della scena.
A Berlino fu possibile, direi "necessario" entrare subito 'in medias res'; a Salisburgo l'inizio dello spettacolo sembrò non avere la stessa tensione. Tutto cambia però quando Gurnemanz si inginocchia a pregare; da quel momento, fino alla conclusione del quadro, si svela un perfetto intreccio di immagini e suoni, in cui le frasi e i timbri dell'orchestra non sostengono piú soltanto le voci, come a Berlino, ma anche i gesti e il muoversi delle figure nel trascolorare dello spazio scenico.
Intenzionale mi sembra anche il rovesciamento del peso drammatico delle due 'Verwandlungsmusiken': in teatro è naturale prevalga la seconda, eseguita anche a Salisburgo con uno splendore «trionfale ma non trionfalistico», che immette perentoriamente nel finale dell'opera. Tutto il "lungo" primo quadro del terz'atto Kundry non ha piú parole da dire, ha delle azioni da compiere, minuziosamente prescritte, piacciano o non piacciano, nelle didascalie dell'Autore e qui puntualmente realizzate dal regista e, con molto impegno e carisma, dalla signora Urmana. Il fraseggio e i colori orchestrali non devono sostenere solo un colloquio tra Gurnemanz e Parsifal, come nell'esecuzione oratoriale; qui le persone in scena sono tre, e la gestualità di Kundry ne sostituisce la voce. La muta Kundry del terz'atto seguirà poi Parsifal e Gurnemanz nella sala del Gral: come immaginare che il suo intervento o meno nell'esecuzione non debba influire sulla parte musicale? Avere realizzato in modo convincente questa trasformazione, grazie a diversi pesi sonori e ad attentissime variazioni agogiche: in questo mi sembra risiedere il sommo impegno e merito di Abbado tra Berlino a Salisburgo. Se l'esecuzione di novembre «avrebbe costretto Nietzsche a fare la pace con Wagner», questa di Pasqua mostra consapevolmente la profondità del
solco che li ha divisi.

Come sempre con Peter Stein, la gestualità degli interpreti rispetta nei minimi dettagli le prescrizioni dell'Autore. E' incredibile la maestria dimostrata da questo regista creando spettacoli come il 'Moses und Aaron' di sei anni fa, su un testo per il quale la sola idea di seguire le didascalie originali sembrerebbe scherzo o follia. Ovviamente, la fedeltà ai dettami dell'Autore non si può estendere alla scenografia, il cui scopo è prevalentemente funzionale e allusivo: gesti "antiquati" possono mantenere la propria pregnanza espressiva mentre, ad esempio, un «magnifico tempio gotico» alla Viollet-Le-Duc farebbe oggi morir dal
ridere come un traino d'elefanti. Questa diversità la dice anzi lunga sulle positive ragioni per le quali l'opera romantica continua a emozionare e a convincere. Premesso questo, tutto il primo quadro del primo atto è tra le cose belle ch'io ricordo su un palcoscenico, non soltanto musicale. L'ambiente rappresenta una natura misteriosa ma tipicamente non ostile, e in essa i movimenti delle figure riescono a dare l'impressione della giusta vastità; i passaggi della lettiga di Amfortas e il colloquio tra Gurnemanz e Parsifal intorno al cigno morto sono allo stesso tempo realistici e fiabeschi.
Il secondo atto, dopo l'ambientazione ancora "realistica" del colloquio tra Klingsor e Kundry (tale è infatti l'uso di un simulacro d'antenna parabolica per gli «specchi di metallo» previsti dall'Autore come strumento di malvagia conoscenza), il giardino magico è uno stilizzato labirinto nel quale la capacità di seduzione è creata in larga misura dagli abiti delle fanciulle-fiori, di splendido taglio "prerafaellita" e colorati come «volatili del Beato Angelico». La sera della replica sono state apportate modifiche al criticatissimo finale di questo atto: da quanto ho sentito dire sulla prima sera, lo si è in questo modo depurato
da una punta di ridicolo, ma il problema della lancia ferma in aria e del segno di croce non è stato risolto. Non disperiamo: lo spettacolo verrà ripreso e non dovrebbe essere difficile eliminarne le poche, accidentali cadute.
Come spesso con Peter Stein, il sipario del terz'atto si apre sull'amplissimo palcoscenico quasi completamente vuoto: cosí nel 'Moses und Aaron' per Boulez, cosí nell'indimenticabile 'Wozzeck' e nel 'Simone Boccanegra' per Abbado. A questo punto della vicenda drammatica, dopo la catastrofe che tradizionalmente accompagna la conclusione del secondo
atto in un'opera romantica, per Stein i personaggi perdono ogni riferimento temporale e ambientale, per non dire storico: sono grumi d'umanità dolente che possono soltanto addossarsi l'uno all'altro. Anche qui la suggestione iniziale è splendida, ma sul proseguimento gravano sia la mancata risoluzione scenica dell'Incantesimo del Venerdí Santo, sia l'inutilità di quella sorta d'anello di Saturno che a un certo punto si leva dal bordo dello stagno. Ma questi difetti non cancellano il risultato piú importante: per quasi un'ora i movimenti scenici di Gurnemanz, Kundry e Parsifal, sempre molto fedeli alle didascalie dell'Autore, sono di rara bellezza e suggestività. Quanto essi si
integrino con l'esecuzione musicale, in questa parte ancor piú convincente che a Berlino, è la vera misura della felice collaborazione tra regista e direttore.
A chi ha qualche annetto sulle spalle, la sala del Gral ha ricordato immediatamente le scelte di Ljubimov e Abbado per il 'Boris' scaligero di 22 stagioni fa, anch'esso con il coro "in libreria"; allora lo scenografo aveva disegnato gli "scaffali" con una certa eleganza, qui non direi che fossero granché belli da vedersi. Ma qualche giro forse di troppo che coro e figuranti fanno per il palcoscenico è compensato dai due suggestivi giacigli contrapposti di Titurel e Amfortas, e dalla sofferta gestualità di questo. Una certa attribuzione a Titurel del significato di coscienza, un poco alla Jochanaan, mi sembra si possa ravvisare nella scelta di farlo cantare già dal sottopalco, scelta possibile e felice grazie ai poderosi mezzi vocali di Markus Hollop. Ho già detto dello spostamento del cuore drammatico dell'esecuzione dal primo al terzo finale.

A Berlino Gurnemanz era l'ineguagliabile Kurt Moll, ma anche Hans Tschammer, già Titurel a Berlino, ha cantato benissimo e ha saputo assecondare, specie nel mirabile terzo atto, quella diversa linea interpretativa che ho tentato di spiegare. In entrambe le occasioni Amfortas era Albert Dohmen: a novembre, specie la prima sera, il grande baritono wagneriano non aveva convinto, mentre adesso, in ottime condizioni fisiche e padrone d'un misurato ed efficace giuoco scenico, ha conteso la seconda palma della serata a Violeta Urmana, il cui talento interpretativo è apparso grandemente maturato. Appassionata e
quasi timorosa di concludere con successo il proprio "mandato", la Kundry della Urmana è stata l'angelo caduto, in cui la presenza della memoria s'adombra nel desiderio del sonno. Le ha giovato, in questo senso, una maggiore luminosità del timbro vocale, per cui non escluderei che la Urmana possa evolvere verso ruoli quali Senta o forse Brunilde, oggi gravemente scoperti. I passaggi dal registro centrale a quello acuto sono stati sempre caratterizzati da una splendida continuità di
timbro.
Un altro punto di vantaggio rispetto alle esecuzioni berlinesi ha segnato il Klingsor di Eike Wilm Schulte, cantante provvisto di adeguata presenza vocale e scenica e grande esperienza non soltanto wagneriana, lodevolmente estesa a diverse parti della stessa opera (Amfortas accanto a Klingsor, Don Pizarro accanto a Don Fernando). Thomas Moser dispone d'una voce piú tradizionalmente "eroica" e di maggiore potenza di suono che non Robert Gambill, Parsifal a Berlino. Ma, proprio per la diversa linea interpretativa della quale ho detto, anche a Salisburgo avrei preferito l'infallibile intonazione e la freschezza di Gambill.
Assolutamente encomiabili, nonostante un piccolo raffreddore, le fanciulle-fiori, già presenti a Berlino. Ottime le Voci Bianche di Tölz, perfette le signore dell'Arnold Schoenberg Chor di Vienna, mentre il Coro Filarmonico (maschile) di Praga non sostiene il confronto con quello di Radio Berlino impegnato a novembre. Al solito livello, o quasi, la mitica orchestra.

Dopo lo spettacolo, ventidue minuti d'applausi.