La cronaca del Wanderer

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Il Wanderer oggi torna da Salzburg, dove ha visto "Simon Boccanegra"... Sbalordito...

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La cronaca del Wanderer
N°4

Ci sono opere che si portano dentro di sé

Ci sono opere che si portano dentro di sé
Opere che ci accompagnano senza posa, alle quali facciamo riferimento, che ci hanno cambiato, che hanno trasformato il nostro modo di avvicinarci ad un autore, ad un'opera o a uno spettacolo in generale. Ogni melomane lo sa.
Quello che vale per il melomane vale anche per il musicista. Ci sono opere che, al di là di un'esecuzione contingente, abitano dentro l'artista e lo accompagnano. E l'artista le porta in sé.
Sembra proprio che Simon Boccanegra sia in qualche modo per Claudio Abbado l'opera di una vita. Se non fosse così, perché, dopo aver fatto rinascere quest'opera mal conosciuta dal pubblico e aver percorso il mondo con una produzione mitica per una quindicina d'anni, perché dunque rimettere tutto in cantiere nuovamente?
Per tutti la messa era finita, non c'era più nulla da dire.
Per tutti, ma non per Claudio Abbado. C'era ancora qualcosa da fare e da svelare. L'accoglienza incredibile del pubblico alla prova generale e alle rappresentazioni, le lacrime di decine di spettatori alla fine dello spettacolo lo provano. L'emozione si è rinnovata, inestinguibile. Ne avevamo dubitato e siamo stati, come tutti, travolti dall'evidenza: qualcosa di nuovo ci è stato dato, qualcosa che non cancella nulla del passato, no, qualcosa di diverso, ma altrettanto forte, che ci sferza e ci trascina. All'opera succede che i treni passino due volte.

Si possono avanzare dei dubbi sull'opportunità di riproporre una messa in scena di Simon Boccanegra dopo lo spettacolo storico di Strehler/Frigerio. La prima risposta che si impone è che lo spettacolo deve vivere. Restare confinati nei ricordi significa fossilizzare quello che è il rapporto dello spettacolo con lo spettatore, rapporto che è immediato e nello stesso tempo fugace. Questi dubbi nascevano in alcuni di coloro che avevano visto lo spettacolo di Strehler e che avevano paura di vivere un'eventuale delusione che facesse sbiadire l'immagine del Boccanegra nella loro memoria di melomani (siamo qui nell'ordine dell'affettivo e non del musicale o teatrale). La seconda risposta, che consegue alla prima, è che, risalendo lo spettacolo di Strehler al 1971, non si può considerare assurdo proporne una nuova versione 29 anni dopo.
Peter Stein non ignora questo passato e Claudio Abbado neppure. Stein utilizza abilmente lo spettacolo di Strehler, soprattutto nel prologo (movimenti di folla, disposizione delle scene, gioco tra esterno/interno - meglio riuscito nello spettacolo di Strehler, a nostro avviso), anche se il palazzo dei Fieschi è in realtà nella visione di Stein una tomba monumentale, che ospita Maria in una bara di vetro, come la Bella addormentata nel bosco, perché l'impressione è proprio quella di un sogno, o di una favola, con queste scene della Città ideale, questo feretro di vetro, questo palazzo-tomba di cui si indovina il profilo nella notte. Stein stesso confessava la difficoltà nel mettere in scena il prologo. Nel primo atto, il lento levarsi del sipario su un fondale di un blu intenso, solare che circonda la giovane Amelia, è sicuramente una risposta al levarsi del sipario, altrettanto lento, sulla barca e la famosa vela di Strehler e Frigerio, ma è anche una risposta al prologo così scuro e notturno. Con Amelia si leva il giorno, ed è un giorno pieno di sole.
Ma al di là delle allusioni e delle filiazioni, l'impresa di Stein è su un piano diverso, in piena coerenza con l'interpretazione maturata da Claudio Abbado. La complessità del libretto, con il suo prologo molto anteriore all'azione, i suoi chiaroscuri, le rivolte popolari, che hanno luogo tutte dietro le quinte, i suoi personaggi che invecchiano o che si dissimulano, tutto ciò fa sì che si presenti la necessità di chiarire le situazioni, identificare i caratteri, mostrare più ancora che suggerire. Strehler aveva concepito un dispositivo monumentale, sontuoso, ma anche particolarmente poetico ed elegiaco. Assecondato da cantanti la cui voce sovente era sufficiente, per splendore ed espressività, a caratterizzare un personaggio, aveva nel suo lavoro un'economia di gesti e movimenti e un ritmo che rispondeva in modo diretto alla buca d'orchestra e che dava al dialogo scena-orchestra un'unità poco comune.
In Stein c'è innanzitutto la volontà d'identificare le situazioni e di mostrare le relazioni di causa: Boccanegra viene eletto doge nel momento stesso in cui perde la sua amata: la sua bara di vetro si alza sul fondo, quando viene portato in trionfo. Mancanza di gusto? No. Si tratta di descrivere un percorso, che si apre su Maria e si ferma su Maria; il nome stesso di Maria va visto sotto diverse chiavi interpretative: c'è qualcosa di verginale - a dispetto che non lo sia - in questa Maria, altrimenti come spiegarsi la morte di Simone in forma di "pietà", come leggere il matrimonio d'Amelia-Maria e Gabriele Adorno con sullo sfondo un ritratto gigantesco della Vergine col Bambino? La purezza verginale si estende su tutto l'insieme dei personaggi, eccetto Paolo, tutti i personaggi del dramma sono personaggi eccezionali, dei personaggi positivi, nobili, degli uomini di valore. In mezzo a tutti, Simone e Amelia, vestiti di bianco, si ritrovano come in una unione mistica, in questo bianco accecante che sottolinea il loro ritrovamento man mano che si dispiega il loro duetto.
La relazione Amelia-Adorno è vista attraverso il racconto, con i gesti innocenti di un amore innocente. Adorno (uno straordinario Alagna) entra in scena come il danzatore protagonista del balletto classico, correndo e percorrendo un enorme giro del palcoscenico per ritrovarsi infine davanti ad Amelia: è come Alberto che ritrova Giselle, o il principe Sigfrido che raggiunge il Cigno bianco, in una serie di movimenti coreografati che fanno di questo incontro la danza dell'amore e dell'innocenza. Karita Mattila (Amelia) dal canto suo gioca con il suo corpo, i suoi capelli, ella è letteralmente "Natura", semplice, spensierata e felice. I due giovani amanti sono liberi da ogni costrizione. E' solo dopo quella specie di matrimonio mistico che è la scena del riconoscimento Padre-Figlia che il dramma e la storia riprendono il sopravvento.
Dal Prologo, che non è la Storia, ma una storia lontana e confusa, si passa, all'inizio del primo atto, ad una sorta di evocazione della felicità prima della caduta, Universo del Racconto, del Balletto, Universo Mistico immacolato, dove l'abito giallo di Paolo colpisce come una macchia; d'altro canto è lui che fa precipitare la caduta, e si ritorna nella storia.
Allora la scena riprende forma, dopo essere stata solo colore e struttura minimalista e geometrica, ridiventa storica e descrittiva nella scena del Consiglio, molto ben congegnata, con un forte primo piano (il Consiglio) e un piano arretrato (il popolo) che pesa sull'azione.. Come spesso accade nel gusto tedesco, scene e costumi sono prima di tutto funzionali, prima di rispondere a criteri estetici. I personaggi sono tipizzati: la plebe in blu, il partito aristocratico in rosso, il colore nero per i combattimenti, il bianco per il Sogno e la Felicità, il giallo per il traditore (Paolo), e i costumi cambiano quando la situazione cambia: Boccanegra abbandona il suo abito bianco quando decide di unirsi ai combattenti. Nel momento in cui entra nella storia e partecipa all'intrigo, Amelia è vestita di rosso, rosso-potere, rosso-passione, ma anche rosso-aristocrazia o rosso-teatro, proprio come Adorno che ha lasciato l'abito da cacciatore ignaro per indossare un costume, pure rosso. In quanto a Fiesco, che si fa chiamare Andrea, veste una redingote dai vaghi riflessi rossi, che richiama la sua appartenenza partigiana.
Il fatto è che la scena lascia ogni volta meditare sulla natura dell'azione:
Il prologo lascia vedere nello stesso tempo la Città ideale (siamo in un richiamo al passato, nel mondo dei ricordi) e, sul fondo, quello che si prende per il palazzo dei Fieschi, schematicamente gotico, è in realtà già una tomba che ospita la bara di vetro di Maria. Ideale, Morte, Storia e Politica, ecco i protagonisti del prologo rivelati dalla scena.
Il primo atto si apre su uno spazio vuoto che si riempie presto di una struttura che richiama un altare, dove si celebrano i ritrovamenti; tutto ciò resta geometrico ed essenziale, mentre il consiglio si svolge davanti ad una tela che raffigura una parete e delle porte monumentali da palazzo patrizio, con gli Aristocratici in rosso a sinistra, la Plebe in blu a destra e Boccanegra in bianco al centro.
L'agitazione popolare si svolge oltre la tela del fondale e ben presto la scena lascia vedere in trasparenza questa rivolta, con un gioco di interno ed esterno, potere e popolo, che fa immediatamente capire l'azione.
Il secondo atto, che è quello del dramma, della tragedia, del complotto, si svolge questa volta in un luogo chiuso, una sorta di Sancta Sanctorum del potere dove tutti passano clandestinamente per tramare. Una sala circolare, che fa pensare alla sala ottogonale del Palazzo di Nerone - la Domus Aurea - (il divano di Boccanegra richiama stranamente un triclinio romano), con sette porte-finestra violentemente illuminate, come le sette porte di Barbablù, al centro una tavola con un calice. Sala circolare, dunque, fortemente incentrata attorno ad una tavola rotonda, con il calice al centro (Paolo vi verserà in effetti del veleno). Questa specie di luogo dove tutti transitano, ricorda anche le scene uniche delle tragedie classiche, è il luogo chiuso degli incontri, delle crisi, dei conflitti e dei rovesciamenti. E' anche il luogo del momento della verità. Ma d'altra parte si suppone sia l'appartamento privato del doge, il luogo proibito, che apre alle grandi scelte future (le sette porte): quando Paolo esce, le porte si spengono: non ci sono più scelte possibili. Luogo proibito e tuttavia violato da tutti, dall'inizio dell'atto. Luogo nel quale non è possibile nascondersi dietro le porte, le colonne, le tende, luogo di morte e d'assassinio, ma anche luogo dove l'azione si scioglie , dove le grandi anime si ritrovano (vedi il trio Simone-Amelia-Gabriele). Da questo luogo chiuso di complotti si passa al luogo aperto del popolo e delle rivoluzioni sotto la volta celeste. Tutto avviene nella notte, al lume delle torce, e quando poi Simone guarda il mare, è un mare pallido, un mare delle prime ore del mattino che si stende davanti a lui, il mare dell'ultima alba.
Il finale è completamente aperto, lo spazio senza limiti, senza scene, con i personaggi al centro e gli spettatori, come un coro dell'antica tragedia, sul fondo. A loro sta per offrirsi lo spettacolo della morte del doge.
Sotto il segno di Maria, questa morte si conclude come una pietà, la testa di Simone reclinata sul grembo di Amelia-Maria. Poi il cadavere viene sollevato, come in quei funerali d'eroe dove il corpo viene mostrato al popolo sconsolato.
Ci sono dunque due morti: una morte "affettiva e religiosa", - è la pietà, Simone muore fra le braccia della figlia -, e una morte "politica" - è la morte di un eroe, il corpo di Simone viene esibito alla folla. Il cerchio si chiude, il dramma individuale e familiare, e il dramma politico si concludono entrambi, dal momento che, attraverso Gabriele, divenuto contemporaneamente genero e figlio spirituale, i due partiti nemici si riuniscono infine attorno ad un doge riconosciuto da tutti. Dalla dispersione e dalle opposte fazioni dell'inizio dell'opera, siamo arrivati all'unità, grazie al sacrificio di Simone.
Nella rappresentazione di Strehler Simone moriva come individuo, solo davanti al mare, mentre in quella di Stein muore "accompagnato" da sua figlia e dal suo popolo, muore elevato alla grandezza degli eroi. Ufficialmente.

A questa messa in scena complessa e analitica (bisognerebbe anche analizzare i giochi particolari su Maria, Gabriele e i sottili riferimenti ai Vangeli, al Matrimonio mistico, all'Annunciazione, alla Pietà; bisognerebbe anche analizzare il rapporto con il cinema, soprattutto per l'utilizzo dei personaggi come attori), risponde una direzione musicale che è il risultato di una profonda rilettura, che rende giustizia una volta di più all'evoluzione della musica del XX secolo, una rilettura che illumina quest'opera sotto una luce molto moderna, alcuni assoli dei fiati richiamano la scuola di Vienna! Una lettura nettamente meno elegiaca che nel passato, più incisiva, più tesa, ma non più fredda, una lettura che non lascia mai indifferenti e che sposa magnificamente le intenzioni della regia. Possedendo perfettamente gli arcani della partitura, e alla testa di un'orchestra in splendida forma, Claudio Abbado può dedicarsi a seguire con un'attenzione palpabile ogni movimento scenico, ogni gesto, ogni soffio. Gioca in continuazione con i colori, facendo balenare qua e là il metallo, qua e là il fuoco, altrove l'elegia, sempre come grande architetto della musica: spinge i cantanti a superarsi, li aiuta anche, molto attento in particolare a Carlo Guelfi, Simone un po' timido, un po' introverso, soprattutto all'inizio. Si può dire che davanti ad una simile direzione, che diventa essa stessa messa in scena, o "messa in spazio musicale", Stein non poteva far altro che commentare l'azione. Il tutto essendo così chiaramente identificabile nella direzione musicale, che il ruolo del regista diventava per forza di cose limitato!
A questo insieme eccezionale risponde un cast di cantanti notevoli, dominato dalla straordinaria prestazione di Karita Mattila come Amelia, che riesce con mezzi molto diversi, se non a far dimenticare, almeno ad uguagliare quella leggendaria di Mirella Freni. Della Freni ci si domandava come una voce simile potesse uscire da un corpo così minuto; vi era dentro la poesia, in quella voce diafana ed eternamente giovane, che delineava un personaggio tenero e fragile. La Mattila è l'opposto. Una voce più scura, più adulta, più "decisa", un grande corpo che le enormi proporzioni del palcoscenico del Grosses Festspielehaus rendono più fragile, ma che domina per la taglia Gabriele-Alagna, un gioco cinematografico che ricorda alcune grandi dive dello schermo: a volte la Garbo, a volte la Huppert. Questa voce lirica, piena, che sa di volta in volta riempire la scena e la sala, ma anche alleggerirsi e schiarirsi: un'Amelia incomparabile: entrata immediatamente nelle leggende della scena del teatro d'opera.
Dopo il tetro prologo e le sue voci di basso e di baritono che si intrecciano e danno quel colore scuro e di morte all'inizio dell'opera, l'arrivo della voce sublime della Mattila, e poi l'entrata in scena raggiante di Roberto Alagna, rinforzano ancor più l'effetto di contrasto. Alagna, figura quasi infantile, con un timbro caldo che mantiene nel contempo un vigore giovanile, fa meraviglie. Certo, a volte si sono notate delle imprecisioni, soprattutto nell'intonazione, alcuni tic tipici da tenore, e, bisogna pur dirlo, da star: ma si tratta in questo caso di dettagli. L'importante è che per una volta Adorno esiste, ne esce un vero personaggio, la cui presenza si impone vocalmente e fisicamente per tutta l'opera.
Molto bene in voce durante la prova generale, il giovane Julian Konstantinov sembra essersi messo un po' in disparte alla prima rappresentazione, nel ruolo di Fiesco. Il suo timbro di basso e la sua potenza si affermano tuttavia man mano che l'opera procede. Figura inquietante alla Rasputin, non fa forse dimenticare del tutto il grande Ghiaurov, ma la sua prestazione resta di gran livello: è in ogni caso uno dei bassi di sicuro avvenire.
Ci si domandava come avrebbe potuto risolversi il problema Boccanegra. A Berlino, Vladimir Chernov aveva dato una bella lezione di canto, a dispetto di una voce dal volume limitato, ma dal timbro eccezionale. A Salisburgo, Carlo Guelfi a dimostrato che ci sono ancora dei baritoni italiani di buona fattura. Molto attento alle indicazioni del direttore, modulando ogni nota, cercando di dare un colore particolare ad ogni momento, giocando su tutta l'estensione del registro, dai piani aerei ai fortissimi (come nella scena del consiglio), ha aderito perfettamente al personaggio. Anche se alla fine la voce è affaticata (alla prova generale, ma non durante le rappresentazioni). Ma questo si inserisce così bene nel senso della storia e del libretto che l'affaticamento della voce, evidente per certi errori tecnici, passa in secondo piano e calza benissimo con l'immagine dell'eroe morente che domina i due ultimi atti.
Di Lucio Gallo si ricorderà lo straordinario personaggio mefistofelico con una voce quasi troppo bella per il ruolo, ma nell'insieme è accattivante, soprattutto nella marcia verso il supplizio.
Infine ci è offerto il lusso di un Andrea Concetti come Pietro; è un lusso, ma i grandi cast si riconoscono dall'eccellenza dei ruoli minori.
In conclusione, abbiamo qui l'evidenza di quella che si può chiamare una rappresentazione leggendaria, una di quelle dove tutto si cancella davanti all'importanza dell'insieme e del risultato complessivo. Ma una volta di più, siamo di fronte ad un caso di "scuola": là dove il direttore d'orchestra ha una visione d'insieme, là dove c'è un lavoro di squadra, la riuscita è assicurata.
E quando si tratta di Boccanegra e di Abbado, siamo al di là della semplice riuscita, siamo in pieno nella storia dell'interpretazione musicale.
Un solo rimpianto: che un tale spettacolo sia dato solo due volte, davanti ad un pubblico iper-privilegiato: un lusso difficilmente difendibile al giorno d'oggi… E che non sia ripreso da un'emittente televisiva pare pure un assurdo. Sono dei successi come questo che occorre mostrare per difendere l'opera presso il grande pubblico. Claudio Abbado l'ha ben inteso, perché questo Boccanegra viaggerà in Italia (Firenze, Ferrara, Parma e Bolzano) e la produzione sarà ripresa a Vienna. Ma a volte con altri cantanti, a volte con altre orchestre. Allora, diciamolo, Gérard Mortier ha avuto proprio torto di privarsi di un trionfo assicurato per il Festival estivo rompendo gli accordi per una coproduzione. E' peggio di un errore, è una colpa.

 

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