Dopo 18 anni, Claudio Abbado torna a dirigere un'orchestra italiana, in un teatro italiano, nell'ambito del Festival musicale più prestigioso della penisola, il Maggio Musicale Fiorentino. Solo questa notizia fa notizia. Cesare Mazzonis, direttore artistico del Maggio, ha reso possibile questo ritorno, come aveva reso possibile la presentazione italiana dell'Elektra di Strauss con i Berliner qualche anno fa. Vecchia complicità artistica nata alla Scala. E di nuovo, dalla complicità nasce l'avvenimento, che rammenta un po' il passato scaligero.
Infatti: in quale altro teatro italiano si potrebbe oggi vedere uno spettacolo di questo livello ? Dove il pubblico viene trascinato in un vortice di emozioni, dove ritroviamo un Verdi come lo amiamo: passionale, lirico, drammatico, ma anche sottile, ma anche etereo, ma anche straziante, un Verdi delle passioni primarie, amore, odio, potere, tradimento, un Verdi che è Teatro.
Aldilà dell'analisi dettagliata dello spettacolo e della regia, è chiaro che qualcosa succede in sala che stringe la gola a tutti, che fa nascere emozioni, fa venire qualche lacrima: chi non è stato colpito dal finale grandioso e intimo dove il suono si spegne progressivamente in un silenzio che anche lui è musica ? Magia.
Premesso questo, si può analizzare qualche dettaglio: abbiamo reso conto in altre cronache della produzione di Stein. Due anni dopo, l'essenza non è cambiata, ma lo spazio più raccolto del palcoscenico fiorentino dà più tensione a scene come quella del secondo atto, nell'appartamento del doge (il gioco delle tende rosse, che accentuano l'effetto drammatico e intimo, è notevole).
Qualche cambiamento anche: il vestito di Simone nel primo atto non è più bianco, ma nero, e l'unione mistica tra Maria e il suo padre diventa un gioco bianco/nero, dove Simone arriva come l'uomo d'azione che passa e regola i conti. Tutti due nella scena del consiglio invece si ritrovano in bianco, e i colori indicano chiaramente le filiazioni, rosso aristocratico, bianco candore purezza, verde plebeo, giallo tradimento. In questa scena ricordiamo che a Salisburgo si vedeva dietro la tela dipinta il popolo in un 'immagine interno/esterno molto forte. Per motivi forse tecnici, questo effetto non c'è a Firenze: è un grosso peccato. Notevoli ancora le allusioni alla pittura rinascimentale italiana, a Piero della Francesca, tanto amato da Claudio Abbado.
Nella direzione degli attori sembra che venga accentuato il lato fanciullesco di Amelia, soprattutto nel momento straordinario in cui ritrova il padre, e cerca a farsi coccolare come una bambina assettata di dolcezza. Purtroppo Vincenzo La Scola non ha saputo rendere il lato "principe azzuro" di Gabriele, che ci aveva incantato a Salisburgo. Ma La Scola, non può ne scenicamente, ne vocalmente, competere con Roberto Alagna.
I cantanti sono stati molto criticati da amanti della vocalità: c'è chi ricorda il famoso quintetto scaligero Capuccilli Freni Ghiaurov Lucchetti Schiavi: inutile ricordare, inutile paragonare, inutile farsi soffrire. Altri tempi, altri mezzi, altri intenti: siamo nel 2002, e tutto sommato la compagnia di canto è omogenea. Al contrario di certi amici molto dubbiosi sulla vocalità della Mattila, il Wanderer si è lasciato prendere da questa voce potente, sana, drammatica, presente, che aldilà di quale problema tecnico sa rendere il suo personnaggio credibile e commovente. Invece Konstantinov (Fiesco) dovrebbe stare attento ai passaggi, ai problemi d'intonazione. Guelfi (Simone)è molto più convincente alla fine, più commovente, più sottile, meno "neutrale". Il canto poco sottile invece di Lucio Gallo (Paolo) è richiesto dal personnaggio voluto da Stein, una caricatura del "cattivo". Rimane Vincenzo La Scola, insopportabile e miagolante Gabriele, incapace di muoversi sul palcoscenico, incapace di cantare piano, incapace di entrare nel personaggio e - più grave - negli intenti del direttore: la sua aria del secondo atto è stato un grande festival di tutto quello che non bisogna fare quando si canta: espressività inesistente, problemi tecnici, intonazione sbagliata, incapacità nell'ammorbidire l'emissione...
L'orchestra non è ovviamente la Filarmonica di Berlino, manca tecnica, spazialità del suono, perfezione negli attachi, precisione, pero chi può competere con la Filarmonica di Berlino? Non è neanche la Mahler Chamber Orchestra, abituata al rapporto con Claudio Abbado. Ma dà comunque un'eccellente prova: un suono molto compatto, una dinamica notevole, una grande sottigliezza: senz'altro un grande momento di musica perché tutti cercano con entusiasmo a rispondere agli input del direttore. Tutto il terzo atto è stato assolutamente splendido. Bravissimi.
Una serata a dir poco grande, dove l'impressione globale e l'emozione fanno dimenticare quà e là problemi tecnici. Ecco l'alchemia della musica, quando c'è il direttore che può trascinare tutti e portare artisti e pubblico all'incandescenza. |