Leggete questo bellissimo testo di Alessandro Baricco uscio ne "La Repubblica" del 14 febbraio


Il Wanderer era al concerto del 12 febbraio . Il vissuto è aldilà di ogni modesto commento. L'entusiasmo del pubblico davanti a questa lezione di interpretazione e l'emozione che invase la Sala non bastano ad illustrare quel che sta succendendo a Roma... Il Wandere era A Berlino, nel maggio scorso per la Quinta di Beethoven  e aveva già notato l'incredibile novità dell'approccio. Ma qua non si tratta solo di novità: si tratta di un discorso molto articolato, che farebbe del ciclo un tutt'uno, che farebbe il punto sul nostro rapporto a Beethoven, sul pensiero profondo di Claudio Abbado, sul sacro e il profano, sulla Natura e lo Spirito...

Un abisso...


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La Repubblica, 14 febbraio

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Abbado reinventa Beethoven
LE IDEE

di ALESSANDRO BARICCO


NATURALMENTE tutti chiedono di Abbado, e dei Berliner, e se davvero siano la meraviglia che si dice, e tu rispondi sì, sono la meraviglia che si dice, e allora loro dicono: in che senso?
Già, in che senso? Mi vengono in mente tre cose. La prima è la forza. La musica beethoveniana è una macchina che produce forza. Lo fa spesso, con una frequenza quasi maniacale, e lo fa perché dietro c'è una precisa idea: gli uomini sono eroi, se vogliamo raccontare gli uomini dobbiamo raccontare degli eroi. La vita è una sfida epica, se vogliamo raccontare la vita dobbiamo raccontare un'epopea. Pronunciare la forza, era un modo di dire il nome dell'uomo. Beethoven sapeva farlo da dio. Il trucco era: niente forza gratuita, slogan vuoti, esplosioni orchestrali senza fondamento. Lui non gridava la forza: la costruiva. Costruiva delle fondamenta, poi incominciava a tirare su il muro, e così via, fino a ottenere la diga, immane. La forza, in lui, non era mai un'esplosione irrazionale: era sempre il risultato di un teorema.

Ti arriva addosso, alla fine, quando è chiaro che nient altro potrebbe succedere che quello, quell orchestra lanciata a razzo, a squartare, con eleganza solenne, il paesaggio sonoro. Questo modo di lavorare dava a qualsiasi inflessione eroica, epica, un irresistibile sigillo di inevitabilità, di certezza: dava alla forza, una forza sconosciuta.
Ora. Bisogna averci la testa di Beethoven. Molti direttori non ce l hanno. Molti direttori, di quella forza, riescono ad esibire solo la parte finale: l eruzione del vulcano: luce, spettacolo, lapilli, okay, tutto bello, ma: pensate uno che invece vi porta sotto terra, vi fa risalire tra le vene nascoste del mondo, vi fa prendere velocità seguendo il rovente rigurgito del ventre del pianeta, e poi vi spara in aria, a illuminare la notte del comune disincanto. Immaginatevi uno che riesce a rendervi visibile ogni singolo passaggio del teorema. Pensate a uno che di quella partita riesce a ricostruire tutte le mosse. Voilà: Abbado.
Lui sa ricostruire ogni volta la forza da capo. E un lavoro di pazienza: a parte i muri portanti bisogna anche prendersi cura degli stucchi, e poi le tubature, e i serramenti, e che le scale funzionino, e che ci sia luce, dalle finestre: il fraseggio dei contrabbassi, gli accenti nelle frasette degli strumentini, il suono delle viole, l esattezza dei timpani. Costruisce. Ho sentito la Quinta, lunedì sera, e la cosa accecante era che tutto ciò che ascoltavo suonava come necessario, non so come spiegarlo, era reale perché necessario, si sarebbe interrotto il mondo se una sole di quelle frasi musicali non avesse partorito effettivamente quella dopo, se qualcuno avesse inceppato il gran teorema, era una macchina che di deduzione in deduzione produceva forza (di passaggio anche dolore, poesia, perfino divertimento) ma soprattutto forza, una forza che nessuna debolezza avrebbe potuto spazzare da lì. Tutti eroi, in sala, alla fine. Zoppicanti, confusi, sconfitti, sbolinati finché volete: ma tutti eroi, lo garantisco.
E questa era una. Una ragione per credere che Abbado e i Berliner sono la meraviglia che dicono. La seconda c entra con la modernità. E una cosa un po noiosa, volendo, ma importante. Se dirigi Beethoven quello che fai è tramandare un pezzo di passato. Non c è santo. E con ciò puoi anche pensare che il senso del tuo gesto sia bell e che finito: tramandare un pezzo di passato. Praticamente è come essere una sala di un museo. Detto così sembra una cosa facile. Non lo è. E infatti molti sono applauditi per il solo fatto di riuscire ad esserlo. Però puoi anche immaginare qualcosa di più complicato: prendere un pezzo di passato e farlo risuonare in mezzo alle strade del presente. Non al riparo in un museo, ma allo scoperto, fuori, dove accade il presente. L operazione è difficile: come riuscire a mantenersi fedeli al passato diventando, però, moderni?
Nel mondo ci sono sei o sette musicisti che, attualmente, sanno rispondere a questa domanda. Una decina, va . Abbado è uno di quelli. Non che la dica, la risposta, è inutile che gliela chiedi. Però sale sul podio e te la fa vedere. Per me l ultimo movimento della Settima che ho ascoltato a Santa Cecilia, la sera del primo concerto, è una delle migliori risposte mai ascoltata. Passato e presente. Fedeltà al testo e fedeltà al proprio tempo. Niente di eccentrico, ma intanto, anche solo vent anni fa, quella musica, suonata così, nessuno avrebbe potuto farla. Essendo in gran parte una questione di ritmo e velocità, tu puoi fare due cose: fare finta che non sia successo nulla da Beethoven in poi, e fare la bella statuina e la sala da museo. O arrenderti al fatto che ritmo e velocità sono due pilastri del presente, che li abbiamo reinventati già tre o quattro volte da quando Beethoven scrisse quella musica: quindi avvitarti sul collo la testa di un uomo moderno, salire sul podio e vedere cosa succede. Se sei Abbado quello che succede è una meraviglia.
E un meraviglia anche perché (e questa è la terza cosa) con lui c erano i Berliner. Non so quante orchestre al mondo riuscirebbero a tollerare il tour de force imposto da Abbado in quel finale della Settima. Magari tutte riuscirebbero a correre così veloce, ma quante saprebbero farlo senza perdere pezzi per strada: pulizia, compattezza, pienezza di suono, limpidezza di pronuncia, volume, espressione? Più o meno tutti, soprattutto se costretti perché sotto il tiro di un arma da fuoco, possono buttarsi giù da un ponte con un elastico legato alle caviglie che ti fa rimbalzare nel vuoto come uno yo yo. Ma quanti potrebbero farlo senza perdere gli occhiali, recitando La pioggia nel pineto e sorridendo alla fidanzata che, imbambolata, assiste all operazione? I Berliner ci riescono. Stavano lì a rimbalzare in quella specie di labirinto cubista, e sembravano gentiluomini riuniti lì per il the delle cinque. Latte? Sì, volentieri. Solo un attimo perché sta rimbalzando contro il soffitto. Figurati, non c è fretta. Ecco, è tornato. Giusto una nuvola, grazie. Cose così.
Davanti a cose così, uno pensa che non gli succederà molte altre volte nella vita, e che poi è solo musica classica, d accordo, ma intanto quella non è stata una serata qualunque, e mai lo diventerà. Già mi immagino tra un bel po d anni, cosa ne farà il ricordo: lieviterà a mito, a racconto epico, a iperbole fantastica. Saremo tutti insopportabili, quando racconteremo questi concerti, avremo davanti giovani che ci guarderanno senza ben capire se crederci o no, e noi tra un artrite e un by pass, lì a fare gran gesti nell aria, con le mani, e a dire che adesso certe cose non si sentono più, allora sì, quelli sì erano anni, quella era musica, sentitevi i dischi, e imparate. Saremo insopportabili e meravigliosi. Non vedo l'ora.