Una contribuzione importante di Alberto Arbasino, pubblicata ne "La Repubblica" del 28 febbraio.

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Claudio Abbado in Rome

La Repubblica: una contribuzione di Alberto Arbasino

La Repubblica, 28 Feb

Beethoven
ricordi italiani

dalle esecuzioni di Abbado a quelle più remote

Alberto Arbasino

Non eseguire Beethoven era il titolo biasimato e discusso benché premiato a Viareggio di un lontano saggio di Gianandrea Gavazzeni. Che più tardi postillò: «... e neanche Brahms».
Che cosa voleva dire, l'irriducibile maestro bergamasco? «Non già un fatto di saturazione, o una crisi di rigetto». Tutt'altro: «Non vedevo proprio la ragione che io e altri colleghi, giovani o dell'età di mezzo, continuassimo ad infliggere al pubblico inutili esecuzioni di queste Sinfonie. E lo stesso oserei dire nel caso delle Quattro di Brahms».
Cioè: attenzione al logorio della routine di consumo. Come quando in anni remoti Rachmaninov e Ciaikovskij erano passati dalle colonne sonore dei romantici film Warner Bros alla musica di sottofondo per ascensori d'albergo e grandi magazzini e aeroporti. E del resto, per quante volte si potrebbero riproporre Bruckner e Mahler e Bach al cinema, dopo che sono stati adoperati da Luchino Visconti in Senso e nella Morte a Venezia e da Sergio Leone nei western all'italiana, con risultati egregi e irripetibili?
Da bambini, prima della televisione, il Beethoven per le scuole italiane aveva il volto di Memo Benassi, truccato come le maschere di gesso del Maestro, sopra i pianoforti di buona famiglia. Veniva riverito da Nino Besozzi in veste di Gioachino Rossini (nel film omonimo), e gli diceva gravemente: «Ho letto il vostro Barbiere di Siviglia». E dicendo «letto» accennava col dito all'orecchio, per sottolineare la sordità.
Nella prima televisione, in bianco e nero, forse era Vittorio Caprioli. Comunque era certamente Franca Valeri la serva di birreria che gli poneva davanti quattro boccali, producendo le fatali note «taratatà». E il Maestro, colta l'ispirazione, correva a casa a comporre la Quinta.
Ora, con la massificazione degli spot pubblicitari, la Nona Sinfonia è diventata presto un jingle per vendere prodotti e un inno per celebrarsi politicamente. Come il Buon Dio a colori che reclamizza le merci, e prima o poi consiglierà per chi votare. Non per niente, tutto diventa elettorale, alla vigilia delle elezioni: opere, pranzi, concerti, convegni, inaugurazioni di mostre e negozi, perfino il breakfast "placé" in pizzeria. Altro che i compleanni in discoteca, con la torta e l'«Happy Birthday» delle sgallettate. Verdi e Beethoven funzionano meglio come piedestalli e «background» per i presenzialismi dell'ufficialità. E tutti questi eventi sollecitano ormai la battuta: «fosse mai capitato dopo le elezioni?».
I pensatori futuri molto probabilmente comporranno saggi su Beethoven e Verdi quali paladini dell'Autorità e del Potere? (Capitò di peggio a Wagner, considerato nazista benché morto prima che Hitler nascesse, e malgrado il suo pessimismo totale). E certo, quando in molte università si considera Shakespeare «imperialista maschista bianco» a causa della Regina Vittoria, non si vede un futuro limpido per chi componeva la Nona e l'Inno alla Gioia proprio mentre i poveri Carbonari italiani languivano nello Spielberg. Le mie prigioni di Silvio Pellico era anni fa un testo per le scuole medie. E gli scolaretti venivano portati a vedere Teresa Confalonieri, un film di successo anni Trenta con la famosa Marta Abba, nel ruolo della celebre dama milanese che corre a Vienna per chiedere la scarcerazione del marito allo stesso Imperatore che libera i prigionieri politici nel Fidelio di Beethoven. Però, contrariamente alla sua contemporanea Leonora, la povera lombarda fa un buco nell'acqua. E l'oppressione continua, su melodie di Beethoven e perfino di Schubert.
Musica di liberazione, di repressione, di cerimonia, di propaganda?... Però poi Claudio Abbado fornisce con i Berlinesi una felice conferma del monito di Gavazzeni: l'esecuzione di Beethoven si giustifica solo come esperienza culturale altissima, non si tollera come stracca routine e ovvio consumo.
Qui, chi per ragioni di età ha un inevitabile patrimonio di ricordi, è naturalmente portato ai raffronti. E si scelgono ovviamente i migliori, negli accumuli del passato. Dunque scattano spesso le nostalgie, per talune esperienze indimenticabili. Che poi diventano leggendarie e mitiche. Però spesso riscontrabili su dischi disponibili.
Allora, fin dalla prima serata, fu sensazionale l'impressione per la Settima Sinfonia, nell'impostazione di Abbado. Da giovani, era pacificamente considerata fondamentale quella di Otto Klemperer. La si poteva ascoltare a Londra, con la Philarmonia, al Festival Hall, in cicli celebratissimi; e i dischi relativi si sono sempre posseduti da allora. (Anzi, qui mi viene in mente una buffonata: a un cocktail in casa di John PopeHennessy, tutti rimpiangevano di non avere i biglietti per la Nona diretta da Klemperer, quella sera stessa. Io avevo preso un posto tanto tempo prima, e me l'ero dimenticato. Ma come! Sono stato molto compatito, come italiano distratto, mentre mi avviavo al concerto col mio biglietto in tasca).
Ma com'era quell'orchestra di Klemperer negli anni Cinquanta? Enorme, abbondantissima; e l'esecuzione era solenne, imponente, tutta "gravitas" sacrale. Quella di Abbado invece "leggera", agile e spiritata come quelle di Carlos Kleiber o di De Sabata. Si basa (lo spiega lui stesso) su un'ottima nuova edizione critica; ma anche l'organico è snello e lieve come doveva essere in quelle sale viennesi del primo Ottocento, in gran parte esistenti tuttora. Quindi, per noi che non abbiamo studiato musica a scuola (e questa è una delle vergogne della scuola italiana), basta consultare la Garzantina della Musica alla voce «orchestra». E si trova la disposizione grafica della grossa orchestra sinfonica moderna, abituale nelle esecuzioni con strumenti moltiplicati; e a fronte l'orchestra «classica», tipica dei tempi di Beethoven e riadottata da Abbado. Si vede subito: i violoncelli sono pochi, davanti, in mezzo; e non alla destra del pubblico come al solito.
Ma anche due flauti, due oboi, due clarinetti (eccetera, invece di numerosi raddoppi) permettono una precisione di sveltezza paradisiaca nelle entrate forti e soft di qualunque strumento. E siccome la spensierata Prima Sinfonia si sente di rado, qui un felice confronto recente è con Valery Gergiev, che con la Filarmonica di Rotterdam la accoppiava all'ultima (disperatissima) di Sostakovic.
Fra i solisti, i fans hanno amato soprattutto Martha Argerich: inevitabilmente, perché è la più poetica. (E basterebbe ascoltare il suo disco di Ravel, sempre con Abbado: una meraviglia). Due veri opposti: Evgeni Kissin tutto «Forza & Pedali» come una società sportiva; e Alfred Brendel, di una discrezione «in punta di piedi» forse esagerata, esangue, nel Quarto Concerto che ha suggerito tante suggestive interpretazioni, anche recenti. Maurizio Pollini dà la Grande Lettura Classica del Quinto Concerto; e come tutti i grandi interpreti classici chiarisce che può essere soltanto questa, l'unica.
(...E ora molti "volti noti" dichiarano che vogliono riascoltare spesso Claudio Abbado a Milano. Viene dunque spontanea la domanda: allora quanti possono anche dichiarare di averlo già spesso ascoltato, alla Scala, quando dirigeva, fra l'altro, Rossini e Bellini e Verdi e Berg e Debussy?).