LA SCALA IN CRISI

Editoriale
Marzo 2005

La Scala attraversa una grande crisi: crisi di fiducia del suo personale verso i dirigenti
crisi di pubblico
crisi di idee e di progettazione
crisi tra lo staff dirigente
Il consiglio ha silurato Carlo Fontana: la decisione unilaterale non risolve nulla, perché in 18 anni di gestione artistica dominata dalla personnalità di Riccardo Muti, non è emerso una politica chiara, e si sono successi molti direttori artistici per breve tempo senza veramente dare una linea al teatro.
Si è creduto che bastava il nome Scala per far andare la baracca, si scopre che un teatro senza contenuto valido, senza offerta rigorosa presto o tardi entra in crisi.
Peccato, ma ci volgliono senza dubbio altri cambiamenti radicali






















 


Seguo con tristezza la vicenda « Scala » attuale, e mi sembra un sintomo della mancanza di interesse da parte di uno Stato che non ha né idee, né voglia di stimolare l’attività culturale nel Paese, da parte di un comune che non sa cosa fare dei suoi Teatri, e in particolare del suo più prestigioso: sembra che lo scopo unico sia di tenersi a qualsiasi costo il direttore musicale. Niente aldilà, né politica, né programmi, né dinamismo.

E lo scopo di tenersi a qualsiasi costo il direttore musicale non è neanche l’espressione di un desiderio radicato in una riflessione valida. Siccome si crede di gestire, l’ho già detto, l’impresa Scala come qualsiasi impresa commerciale (il marchio Scala come marchio di Saponette o profumi...), il marchio Muti viene considerato la garanzia marketing che fa andare avanti la baracca.

Purtroppo, tutti vedono che il Teatro non funziona così… direi per fortuna per il Teatro in generale, e sfortunatamente per il Teatro alla Scala.

Il Teatro in sé non è un prodotto, è un contenitore. La Scala senza spettacoli di livello coerente con la sua fama diventa una bottiglia vuota, un fantasma, un ricordo. E, lo ripetiamo noi abbadiani da anni, il Teatro alla Scala soffre di un solo male: la politica artistica.

La fatalità vuole che il Maestro Riccardo Muti, grandissimo direttore d’orchestra, non abbia grande sensibilità rispetto all’idea stessa di politica artistica, fatta di rischi, di aperture su repertori poco conosciuti, di standard elevati, di regie anche discutibili, ma di alta qualità, e, per quanto riguarda la Scala, di grandi cantanti e grandi direttori.

La fatalità vuole che tutto riposi su di lui, sui suoi desideri, sulla sua volontà del momento.

La fatalità vuole che attorno a lui non ci sia nessuno che possa con mano forte condurre la politica del Teatro.

La conseguenza è la successione di direttori artistici, poi l’evaporazione della funzione ridotta oggi a “coordinazione della politica artistica”, cioè coordinazione del nulla.

La conseguenza è una crisi di pubblico, una crisi di fiducia del personale verso la direzione e gli inevitabili conflitti di persona, che purtroppo non nascondono null’altro che relazioni personali alterate, e non tanto opposizioni di natura professionale o artistica.

Già nel 1990, quando l’eccellente Mazzonis lasciò il posto, spinto da una campagna condotta da Riccardo Muti stesso, “non mi riconosco nella politica artistica del Teatro” - disse allora - , durante la conferenza stampa di presentazione di stagione, fece un discorso molto bello, molto intelligente, che non diceva altro che “il teatro deve vivere di nuove cose, di apertura, di apertura all’Europa” davanti a Fontana e Muti, il naso tuffato nelle loro carte.

Abbiamo già recitato la litania dei progetti annunciati mai realizzati, di quelli realizzati in condizioni vergognose per un Teatro di questo livello, e ti tanto fumo senza arrosto. Ultima del genere la Super Prima con “Europa Riconosciuta”, ermeneuta della superficialità (in)significante.

Questa crisi di idee, di politica, di uomini viene accentuata dalla situazione del momento: ci sono adesso a Milano due Teatri, e nessuno sa come gestire due sale grandi in una città dal pubblico ridotto: si sa che il pubblico perso si riconquista con grandi difficoltà, e nulla è stato fatto negli ultimi anni per tenerlo fedele: si è privilegiato il pubblico degli sponsor, del turismo, delle fiere, per riempire a tutti costi la sala, senza contare sulla base regolare di un pubblico fedele ed educato alla musica.

Oltre a due teatri da gestire c’è anche la vecchia tradizione locale di preparare le stagioni con poco anticipo, mentre teatri anche di importanza media come Ginevra hanno programmato le stagioni fino al 2008.

In questo contesto a che cosa serve la politica delle Fondazioni se si gestisce il teatro a corto raggio, mentre si sa che la gestione dei teatri è fragile?

Comunque il teatro musicale è economicamente provato, non può guadagnare soldi, può soltanto perderne meno. Matematicamente i costi fissi aumentano ogni anno e la parte della produzione si riduce. D’altronde, la produzione artistica e il costo del biglietto sono cose che non possono adeguarsi reciprocamente; l’aumento dei biglietti non può essere esagerato e il costo degli artisti aumenta secondo leggi di mercato. Il fenomeno è ben conosciuto sotto il nome di “Legge di Baumol”, sorta di fatalità economica che fa sì che il Teatro non sia mai un investimento redditizio: in queste condizioni, i privati (in realtà enti semi-pubblici in molti casi) non vogliono investirvi troppi soldi senza almeno una politica fiscale adeguata: ripetiamo che il tutto privato che regge i Teatri in America nasconde un intervento dello Stato attraverso la politica fiscale in materia di sponsoring. Lo Stato, sia attraverso sovvenzioni, sia attraverso una politica fiscale coerente verso gli sponsor, rimane il primo datore di fondi ai Teatri, in Europa o negli USA. Senza lo Stato, non c’è possibilità di Teatro.

Il sistema che prevale in Italia, detto stagione, esige – a differenza del Teatro detto “di repertorio” più sviluppato in Germania, Austria e in Europa dell’Est - una sorta di “Festival permanente” dove la perfezione delle rappresentazioni sotto tutti i punti di vista giustifica un numero ridotto di recite, costi elevatissimi a recita, e pochi titoli all’anno. Può apparire scandaloso, e in certi versi lo è, che ad esempio Abbado diriga quattro recite di “Flauto Magico” (due a Reggio, due a Ferrara) mentre in Teatri paragonabili in Germania si producono 200 serate all’anno. Ma le condizioni artistiche sono diverse, e mai un direttore della fama di Abbado si vede in città tedesche di quelle dimensioni, come Bamberg, o Bielefeld.

Il pubblico è sempre più ridotto: condizione tragica del Teatro Italiano che vede ridursi il pubblico, dovendo produrre sempre di più a caro prezzo.

Il sistema conviene di più ai grandi Teatri come la Scala, sempre che la produzione rispetti il livello richiesto; se si producono spettacoli degni dalla routine viennese o berlinese, allora il prodotto non vale l’investimento ed è crisi. Come succede oggi.

Lo vediamo, la crisi ha cause contingenti e cause più profonde. Intanto ci vuole adesso al Teatro alla Scala un cambiamento radicale, perché la politica (o non-politica) finora condotta ha prodotto i suoi risultati, poco convincenti. Ci sono dei momenti dove ci vuole coraggio per andare avanti . E’ questione di salvezza del Teatro e di onore del Paese, visto che il Teatro alla Scala ne è uno dei simboli. E questo cambiamento non può appoggiarsi sullo stesso uomo.

Mi viene da pensare ancora una volta a Claudio Abbado, che invece di rimanere a Berlino sul trono più ambito di una carriera musicale, ha preferito partire verso nuovi orizzonti: dal 2002, e attraversando una crisi di salute tremenda, ha fondato se non erro tre orchestre, e sta realizzando un progetto musicale e sociale senza paragoni in America del Sud. Ci sono dei modelli milanesi da seguire. Coraggio!









































































































































































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