ABBADO NELLA STAMPA

Il Diario della settimana
17 Ottobre 2003












































































































































































































 

Il gesto di Abbado
di Giuseppe Montesano


In che senso i gesti ci parlano? Sto voltando le pagine di un volume per i settant'anni di Claudio Abbado e fantastico su una fisiognomica del gesto, una scienza tra Della Porta e Lavater capace di leggere nelle figurazioni di chi dirige un'orchestra: davanti mi scorrono le fotografie che fissano alcuni gesti caratteristici di Abbado, e inevitabilmente la mente cerca di ricostruire le tracce che quei movimenti hanno lasciato nelle loro esplorazioni per i sentieri del suono.

A quale passaggio enigmaticamente semplice dell'enigmatico Beethoven si riferirà il sopracciglio inarcato che interroga?

A quale Bach di pitagorica dolcezza accennerà il ssst quasi implorante che chiede al pianissimo di sfiorare il silenzio senza ammutolire? E a quale pagina dell'infinito romanzo di Mahler si rivolge il cenno che sospende in una pausa intollerabile la valanga che a sorpresa sfocerà in uno schianto che mozza il fiato in gola o in uno svagato canticchiare da wanderer?

I movimenti di Abbado sembrano chiedere con insistenza la partecipazione dei musicisti, e nella loro nettezza senza esitazioni appaiono come tasselli di un dialogo continuamente interrotto e ricominciato, e anche quando si levano nell'imperioso gesto dionisiaco del fluire senza sponde del fiume-musica sono accompagnati da uno sguardo appena accigliato, lo sguardo severo di chi non vuole soggiogare o ipnotizzare; ma chiede che i sensi si facciano pensieri e la mente si scopra appassionata. L'uomo concentrato e asciutto che sale sbrigativo sulla bassa pedana, che distende le braccia come ali a guidare il suono che lo investe o si china sull'orchestra come per toccare ogni singolo strumento, sa da molto tempo, e che di fronte alla bellezza in persona che prende la parola, l'io innamorato di se stesso deve rimpicciolirsi, sgretolarsi, sparire: e che davvero, come in un'opera di bonifica che passi a contrappelo la mitologia di Freud, dove c'era l'io si instauri l’es.

SUL PODIO. Cosa fa esattamente colui che con termini obsoleti continuiamo a chiamare direttore d'orchestra, conductor, chef d'orchestre, dirigent? Al meschino narcisismo del “capo” che la società stessa ha impresso come una, stimmata di falsità sul corpo dell’orchestra, a questa sorda volontà di potenza da burocrati che il nome di direttore evoca, Abbado si è continuamente sottratto, e proprio in un mondo dove niente è forse più amato del virtuoso dalla posa eroica che “domina” lo strumento o “tiene in pugno” l'orchestra. Come pochissimi altri, Abbado sa mostrare nelle sue letture che il lavoro del musicista-interprete è molto simile a quello di un traduttore metafisico innamorato della realtà, di uno sempre in bilico tra il mondo platonico delle idee e la loro sofferta incarnazione nel terrestre del suono. Il traduttore-musicista conosce la lingua materialistica di oboi e viole, ma anche la lingua pura e solo parzialmente scritta del compositore: è un materialista assoluto che non può smettere di essere un idealista assoluto.

Questo continuo entrare e uscire da due mondi vicinissimi ma difficili da unire è diventato in Abbado una seconda natura, ma perché il transito dell’espressione riesca davvero a lui importa anche che ogni singolo musicista in orchestra partecipi alla traduzione: per me si tratta di suonare insieme: esattamente come se si facesse della musica da camera. E qui la musica da camera non è solo una indicazione tecnica, quanto l'aspirazione appena sussurrata a quella “comunità” di uomini liberati attraverso la musica che Robert Shumann sognò a volte, e che l’intero meccanismo di specializzazione della società ha infranto per sempre.

E allora a indicare dove sia diretta la ricerca di Abbado si può cominciare dal suo ultimo Beethoven, nuovo non perché questa interpretazione sottragga o aggiunga abusivamente qualcosa a ciò che è lì da sempre, ma perché con essa entriamo nel mistero-Beethoven senza pretendere di semplificarlo: ora sappiamo, definitivamente, che Beethoven è vivo proprio nell’occhio del ciclone delle sue contraddizioni. Con la radicalità di un Adorno reso mite da un lungo artigianato, Abbado ricostruisce la filosofia nascosta nelle nove sinfonie, alla ricerca di un equilibrio letteralmente impossibile. E’ per questo che la danza che Wagner leggeva nella Settima è misurata in lui dal rigore, e si può davvero sentir diventare suono la danza dionisiaca del concetto che Hegel sognò, l'anti-demonico di Beethoven, il suo posso ma non voglio, quel trattenere lo scatenamento sull'orlo che è la sua classicità prima della fine di ogni classicità: chiarissimo nel gesto di Abbado che mima quell'ascesi, verso una libertà che deve scavarsi il suo cammino in un torrente di pietra. E quanta tradizione impigrita è condannata da questo gesto! Mai nel Beethoven di Abbado la smorfia teatrale a effetto, ma sempre la musica dell'interiorità, la reine musik a cui solo una reine kritik può giungere. Ed è il primo tempo della Terza, con il gesto che tiene tutto suono insieme senza annegare un solo dettaglio nell'immenso disegno: a far sorgere i geyser e le lave mentali del Grande Sordo; è lo strum della Sesta, non tempesta mimetica ma articolazione concettuale del movimento; ed è la Nona portata ai confini del Mahler-mondo, ma senza abbandonare la disperata resistenza di Beethoven dentro le forme ormai impossibili della tradizione. E dalla stessa scelta di una difficile semplicità è guidato lo Schubert di Abbado, privo di facili abbandoni proprio nel cuore della troppo spesso canzonettizzata Incompiuta: facendo emergere là come altrove la forza oggettiva di quel Biedermeier che in Schubert si sgretola come colto da una lebbra misteriosa, la forza di liberazione che avrebbe soffiato nei suoi salotti, distruzione di ninnoli scemi e evocazione del sublime alla Friedrich in un solo soffio di nuovo; e lo struggente divagare che in Schubert si snoda lussureggiante e ferisce la porcellana della tradizione con gli erotici morsi dell'inconscio, è rivelato con discrezione estrema dal ciclo schubertiano di Abbado, perfetta dimostrazione in musica dell'aforisma di Karl Kraus: Pazienza, voi ricercatori! Il mistero sarà illuminato dalla sua propria luce. ..

Parlando con Wolfgang Schreiber, non molto tempo fa Abbado si è lasciato sfuggire su Swarowsky, il suo maestro di giovane interprete a Vienna, queste parole: lo spirito di Swarowsky mi sembrava matematico, sottintendendo forse un: troppo matematico. E se da Swarowsky il Maestro dichiarava di avere imparato la legge essenziale che le grandi partiture collegano le loro cellule minime al disegno d’insieme con logica feroce, nella stessa conversazione si richiamava poi spesso a Furtwangler come a un grande esempio di libertà: non si tratta semplicemente di rispettare le indicazioni metronomiche, bisogna ancora trovare loro un senso, e poi, pensare solo alla musica. Ed è forse da questa “libertà” che sorge un’altra delle interpretazioni più luminose e lucide di Abbado, quella del post-classico Brahms. Perché quando mai l’oro brunito di foglie che rilucono autunnali è stato reso nel compositore di Amburgo così nel profondo e ricco di tanta malinconica felicità? Sono dovunque le misure che respirano, il camerismo trasparente delle linee contrappuntistiche, il canto che fiorisce nel cuore del corpo sinfonico con un gesto placido nell’assecondare il piacere, talgiente nel seguire la logica intellettuale di Brahms: nella Quarta il disfarsi dell’intrico dell’ordo caelestis sotto accenti di liederistica mollezza, nella Terza la classicità al di là del bene e del male del poco allegretto, quasi a dire che dopo ci potrà essere solo la tenebra, che quella è l’ultima volta che alla musica occidentale è concesso il canto, che nell’apparente trionfo melodico giace una mestizia unica, il risuonare di qualcosa che fra una battuta già non sarà più, l’accento mortale di ciò che finisce senza ritorno.

L’Abbado che ha spremuto da questo Passato che sembrava essere consunto ancora una goccia di nuova luce, è lo stesso che per anni e fino all’ultimo visse un rapporto di work in progress con la musica contemporanea al centro del quale c’era Luigi Nono, lo stesso che impose alla pigra Vienna il Wiein modern e i cicli tematici in cui furono coinvolti Kumig, Sciarrino, Rhim: e la tensione fondamentale in Abbado tra l'amato passato e il geroglifico presente, come resistere a leggerla in una fotografia in cui lui e Nono si sprofondano, chini sul pavimento, nelle mappe-partiture del compositore di Como una ola de fuerza y luz per nastro magnetico, soprano, orchestra e pianoforte di Pollini, e del tragico Prometeo? Anche dal magma eracliteo in cui non ci si bagna mai due volte della neue musik Abbado ha attinto la sapienza di fare di una partitura «classica» non una compatta monade priva di porte e finestre, ma un tessuto sonoro di strati sovrapposti che bisogna far risuonare sempre più prossimi alla loro logica interna: e da quanta polidimensionalità della neue musik e da quanti lucidissimi scavi in Mahler e Berg è venuto fuori il Wagner non ancora abbastanza compreso di Abbado? Così nel Lohengrin e nel Tristano il tragos che finalmente nasce dal melos, il canto lunare di Bellini e insieme la décadence: ma lucida, cosciente, pronta a cogliere in minimi snodi i Ravel e i Debussy futuri, e ancora nel preludio del Lohengrin il molteplice nell'unità di cui l'orecchio di Baudelaire aveva colto l'essenza: per Abbado niente melassa fonica o immobilismo ritmico da falso deliquio, invece le linee limpide e l'estasi nel movimento, le lacrime mentali e la luce incandescente che il poeta delle Fleurs du mal seppe udire in Wagner: sembrerebbe difficile, addirittura impossibile, arrivare a qualcosa di più ardente: eppure un ultimo razzo viene a tracciare un solco più bianco che gli fa da sfondo. Questo sarà il grido supremo delI'anima salita al suo parossismo.

LA VERITÀ DELL'ARTE. In quegli strati su strati che vibrano nel Wagner che Abbado ci ha dato in quantità troppo scarsa, sono passate molte nevrotiche accensioni sbucate dal Wozzek e non pochi pallori di fiamma da Pélleas et Mélisande, ma anche tanto chinarsi umile sulla musica che Nono tentò di aprire alla realtà e alla lotta contro un falso ordine che in quegli anni di fabbrica illuminata sembrava si potesse ancora combattere. E se la politica è ancora e sempre machiavellismo più o meno travestito, e come tutti gli artisti Abbado è radicalmente stato ed è un antipolitico, certo non ha mai sbattuto la porta in faccia alla realtà, e questo è bastato perché i musicologi in crinolina e turo lo tenessero in sospetto. E quando una sera del dicembre 1992, nella sala della Philarmonie a Berlino, davanti a un pubblico in smoking e fili di perle, Abbado volle che a metà dell'esecuzione del Canto sospeso di Nono Susanne Lothare Bruno Ganz leggessero le lettere dei condannati a morte della Resistenza europea al nazismo, fu anche per dire che la magia dell'arte non è tutto, che al di là della magia c'è un'istanza superiore: la verità.

La volontà venata di utopia del «fare musica insieme» si è forse realizzata completamente nell'Abbado che ha fatto del teatro musicale uno dei vertici della sua creatività. Che cosa è diventato Verdi negli anni della grande Scala? Ciò che si era intuito da tempo ma non era mai stato visto e sentito in modo così chiaro: il più grande autore di teatro in musica del suo tempo. Da quella esperienza. sarebbe uscito fuori lo scavo nel Boris Godunov e nella Kovàncina a fame sentire l'inaudito timbrico e drammatico, nel Don Giovanni con l'orchestra che recita e si fa mobile corpo della psicologia di Mozart-Da Ponte, e con il terrificante smascheramento della violenza del privilegio nel Wozzek, inimitabile nel suo oscillare tra strazio creaturale e grottesco da finis mundi, teatro di umanità offesa e beffa di un potere tradito dalla sua vocazione all'operetta perpetua, pagliaccesco fin nel cupo del tragico.

Lavorando fianco a fianco con Tarkovskij o con Ponnelle, Abbado ha fatto come nessuno del teatro d'opera un teatro vero, cosciente che nel suo calderone va calato il minimo dettaglio di un gesto o di un abito, ma sempre risalendo alla logica inscritta nelle voci e nell'orchestra, quell'arte di sentire mimica e psicologia e anima dentro il teatro totale che la musica delle opere liriche a volte miracolosamente suscita. E quanto di questo lavoro si è travasato con risultati stupefacenti nei suoi Berg e Mahler? Contro uno dei miti prediletti delle critica musicale, il passare del tempo non ha reso più «tranquille» o più «serene» le interpretazioni di Abbado, anzi: dagli anni Settanta ai Novanta il Berg dei Tre pezzi per orchestra non si è affatto pacificato, e l'esplorazione dell'abisso berghiano si è solo approfondita.

Ecco il continuo insorgere melodico che ritorna alle soglie dell'indifferenziato, le esplosioni impressionanti non per volume fonico ma per la respirazione bocca a bocca tra pianissimi e fortissimi, il delirio organizzato che nasce e sfocia nell'amorfo; ma ecco anche il sorgere degli spettri della gaia apocalisse negli Altenberglieder, non solo perfettamente storicizzati ma anche aperti su un oggi in cui la loro inesausta domanda di bellezza è fatta risuonare da Abbado in tutto lo scandalo che fece impazzire i borghesi di Vienna alle soglie della Prima guerra mondiale: proprio su quello stesso orlo di disperata speranza che Mahler stava già registrando nel sismografo metrico del suo corpo. E questo sismografo, dove si è impresso il kitsch e il sublime sfregiato, la tragedia irreparabile e l'utopia di un'altra vita, il violino del viandante di Eichendorff e la musica delle sfere, la visione anticipata dell'esplosione atomica e la resurrezione dei corpi, la danza sul baratro e la felicità semplice che spetta a tutti i nati da donna, ha trovato in Abbado l'interprete inimitabile della sua lancinante bellezza, quella su cui è scritto il motto di Holderlin: ma dove è pericolo cresce anche la salvezza. Nello sterminato Alla ricerca della musica perduta che sono le sinfonie di Mahler, Abbado trova come il sigillo di quella tensione tra gli opposti che è leggibile nel cuore di tutte le sue interpretazioni, l'idea che oltre i confini delle terre note si possa ancora trovare del nuovo.

E dei nove romanzi mahleriani, miscuglio di affinità elettive e fratelli Karamazov, elisir del diavolo e educazioni sentimentali, corni magici del fanciullo e interpretazioni dei sogni, crepuscoli degli idoli e turbamenti di giovani Torless, si accennerà a una sola storia: la Settima. Qui il gesto di Abbado è quello che sa concentrare in un secondo l'ora e venti della gigantesca partitura, facendo sentire che nella prima battuta c'è già l'ultima e nell'ultima ancora l'eco della prima, lezione quasi esoterica sul fatto che la musica è solo in apparenza un evento temporale lineare: e attraverso il vortice immobile delle Nachtmusik con il suono-rumore che apriva il Rehingold a evocare gli armonici dell'imminente Modernità, attraverso la spettrale bellezza baudelairiana dello Scherzo su un mondo al tramonto e le lame brucianti e le nevrosi ritmiche del Finale, tutta la Settima tenuta stoicamente in bilico, viva nel mezzo del suo gorgo di laceranti contraddizioni. Come è arrivato a queste profondità di ascolto l'uomo schivo che oggi ha settant'anni di giovinezza, che quando ringrazia il pubblico sembra ritrarsi dalla trappola dell'applauso, e sa sparire come «io» per far essere la musica? Senza mai voltare le spalle al qui e ora dell'oggi, Abbado ha scoperto o saputo da sempre che il perpetuum mobile del «nuovo» nasce dall'amore fedele-infedele per la «tradizione», e nell'ora in cui l'arte gira su se stessa come in preda a un futile specchio di Narciso, dalla sua scienza appassionata e da quella di altri silenziosi ma irriducibili ribelli è come se venisse un richiamo: non servi del passato stamorto! non iconoclasti del nuovo già appassito!

La sola etica possibile per gli artisti in questo tempo di spettacolo permanente elevato a unico dio, è nel lavorare alla propria opera come se la modernità non avesse tradito fino al midollo le sue promesse, come se tutto fosse ancora possibile nell'Aprèslude che il dottor Benn vide e nel quale ci è toccato vivere: Devi saperti immergere, devi imparare, / un giorno è gioia e un altro giorno obbrobrio, / non desistere, andartene non puoi/quando è mancata all'ora la sua luce. // Durare, aspettare, ora giù a fondo, / ora sommerso ed ora ammutolito, / strana legge, non sono faville, / non soltanto – guardati attorno: // la natura vuol fare le sue ciliegie, / anche con pochi bocci in aprile / le sue merci di frutta le conserva / tacitamente fino agli anni buoni. // Nessuno sa dove si nutrono le gemme, / nessuno sa se mai la corolla fiorisca – / durare, aspettare, concedersi, oscurarsi, invecchiare, aprèslude.














© Corriere della Sera


















































































































































































































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