LA SCALA SPERA Editoriale Le conferenze di Stéphane Lissner lasciano sperare un ritorno alla normalità più presto del previsto.
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Basta, basta con questi confronti da bottega alla Bartali e Coppi. Amiamo e stimiamo il nostro Maestro, io personalmente lo venero, ma nel contempo sappiamo prendere quello che di buono, anche se diverso, ci viene da altri percorsi, anche si tratta dell’”odiato usurpatore” (peraltro testè defenestrato). E’ questa la strada verso la conoscenza: non fermarsi ad un’unica taverna. Io stesso, tornando dal mirabile “Parsifal” di Bayreuth (parlo della direzione di Boulez, il resto è discutibile), o dall’opera di Parigi dopo un “Tristano” a dir poco storico, ero felice e nello stesso momento stupito davanti alle reazioni di certi amici cari, stupiti che ci fosse musica dopo Claudio Abbado. Claudio Abbado ci ha sempre insegnato l’apertura a tutta la musica, a tutti gli artisti, a tutti gli uomini, e siamo abbadiani anche per questo, perché l’impegno musicale di Claudio Abbado si arricchisce dell’insostituibile lezione umana che tutta la sua carriera ci insegna, a cominciare dal suo interesse continuo per i giovani. Quando leggo articoli firmati da giornalisti che non scrivono critica, ma recensioni partigiane, quando sento amici che vedono il mondo musicale diviso tra il sole d’oro Abbado e il sole nero Muti, mi viene la stanchezza e la delusione perché non hanno capito nulla della lezione dell’arte e della cultura. A prescindere dai gusti e dalle preferenze artistiche, vorrei che la Scala di Lissner, liberata da clan e schieramenti, fosse il luogo di un autentico dibattito artistico e culturale aperto a tutti gli stili, a tutti gli artisti, a tutto il pubblico e non il teatro del provincialismo idiota che fu ancora di recente. Ecco perché mi auguro non solo che ci torni Claudio Abbado al più presto, ma che la rottura brutale con il teatro non impedisca a Riccardo Muti di tornarci. Quello di cui la musica classica ha bisogno è prima di tutto l’apertura, la vitalità, il dibattito. La straordinaria capacità del Festival di Bayreuth, dopo quasi 130 anni di vita, di fare delle proposte sceniche anche dissacranti, di aprire a direttori poco conosciuti, a cantanti da scoprire, diretto da un giovane manager di 84 anni, anche lui certo criticabile, dovrebbe essere un esempio per un teatro vecchio di quasi 230 anni che per un tempo ha lasciato che gli altri si impadronissero della scena lirica internazionale.
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Gli editoriali Editoriale marzo 2001
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