LA CRONACA Lucerne Festival 2004 E poi arrivo' Marke Guy Cherqui Auditorio del KKL Richard Strauss Richard Wagner Lucerne Festival Orchestra
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Seconda stagione della Lucerne Festival Orchestra, leggermente modificata: Emmanuel Pahud, I Capuçon, Georg Faust sono presi da altri impegni, subentrati JAcques Zoon, ex-flautista del Concertgebouw, artista d'eccezione, Franz Bartolomey, cellista di spalla dei Wiener Philharmoniker, Henrik Schaefer, ex-assistente di Claudio Abbado a Berlino e ex-violista dei Berliner, che ormai inizia una carriera promettente di direttore, tornato a suonare in orchestra per Claudio, due artisti del quartetto Alban Berg, qualche musicista della Mahler Chamber Orchestra, anche dell'orchestra della Scala e della Filarmonica della Scala. Ma fondamentalemente l'orchestra è la stessa, stesso impegno, stesso entusiasmo, stressa perfezione. Il miracolo si è ripetuto. Dopo lo stupore dell'anno scorso, eravamo curiosi di ascoltare i musicisti un anno dopo: il suono, radicalmente diverso da quello dei Berliner o di altre grande orchestre, rimane questo miracolo di omogeneità con una nota particolare verso i fiati egli ottoni stupefacenti e i celli, decisamente come l'anno scorso, eccezionali. Ma ci sarebbe da notare tutto: l'impegno di Blacher, di Westphal, di Christ, lo spirito di gruppo e l'incredibile personalità artistica individuale che si sente nelle parti quando sono scoperte (Fiati! ancora..., ma anche contrabassi, oppure arpa): orchestra fatta di musicisti consapevoli degli altri che si ascoltano a vicenda (e Abbado dirigendo indica qualche volta a certi di ascoltare o seguire gli altri), ma anche di personalità forti che Abbado fa sentire in occasione dei concerti di musica da camera o nelle parti soliste del programma previsto. In breve ancora una volta, questa è la gioia del "Fare musica insieme" tanto ripetuta da Claudio Abbado. I quattro ultimi Lieder di Strauss, risalendo al 1948, sono sempre visti come un addio alla vita e al mondo, oppure uno sguardo sulla vita passata: basta pensare che la cerchia aperta da "Morte e Trasfigurazione" si rinchiude. Quattro Lieder , tre di Hermann Hesse, uno- l'ultimo- di Eichendorff. Il ciclo si apre con "Frühling"(Primavera), poema alla gloria della rinascita, del fremito del corpo, dei sensi svegli e ringiovaniti. Il secondo (September) evoca il giardino sotto la pioggia, la fine dell'estate che guarda stupito i fiori andare verso la morte; la fine del giorno è invece il tema della terza poesia, quando si va a dormire per percorrere il paese dei sogni, metafora del passaggio della vita, nella notte magica aperta alla libertà dell'anima (si vede il legame con il duetto di Tristano). Il quarto Lied, dedicato all'"Abendrot"(il rosso della sera...il crepuscolo), racconta un percorso, una "Wanderung" nella natura durante il giorno, che sta per finire e prefigura solitudine e morte (ultima parola della poesia). Contesto malinconico, molto lirico, servito da una grande Renée Fleming: lo stile impeccabile - si riconosce la scuola americana di canto -, l'emissione perfetta creano un dialogo particolare con un'orchestra scintillante, anche se questa perfezione paradossalmente non favorisce sempre l'emozione. Renée Fleming non ha la voce grandiosa di Karita Mattila, che ha inciso la parte con Abbado e i Berliner, ma sa creare raccoglimento e concentrazione nel pubblico (il silenzio finale...) . Non potrò dimenticare il sontuoso preludio orchestrale di "In Abendrot", l'incredibile duttilità degli archi, il suono che si alleggerisce fino al soffio. In breve: un grande momento, che fa vedere un'orchestra che non solo dimostra omogeneità e padronanza tecnica pressappoco uniche, ma anche uno strumento "globale" che adatta esattamente il suono alla necessità, perché ogni musicista è parte di un gruppo, ma anche interprete individuale. Mentre, lo si vedrà, in Mahler si privilegia l'aspetto analitico e il rapporto dello singolo strumento all'insieme e al gruppo, in Strauss sembra privilegiata la pasta orchestrale nella sua più vellutata espressione - certi vedono manierismo...io vedo semplicemente una scienza forse intuitiva, forse nata dall'osservazione e dall'attenzione, e anche dalla tensione verso il direttore. Il momento più atteso era il secondo atto di Tristan und Isolde: non è sempre facile proporre un atto isolato di un opera così complessa come Tristan und Isolde. Ma il secondo atto concentra attorno al duetto d'amore tra Tristan e Isotta, sensualità, natura, amore, morte, delusione, malinconia. Fortemente legato al luogo, è un pezzo prediletto da Abbado che d'emblée era riuscito nel 1998-99 a darne un'interpretazione quasi definitiva, che aveva perfino stupito Daniel Barenboim - pure lui uno specialista! - alla prova generale salisburghese. Più che mai è la musica e l'orchestra che dicevano e davano quello che, dobbiamo riconoscerlo, i protagonisti non sono mai riusciti a dirci e a darci! Anche se la rappresentazione era "semi-scenica" (in realtà una messa in spazio molto semplice e qualche lavoro sulle luci per creare un'ambiente raccolto), mai Tristan (John Treleaven, che sostituiva Robert Gambill ammalato) e quasi mai Isolde (Violeta Urmana) sono riusciti a cantare con la fiamma interna che bruciava nell’orchestra di Claudio Abbado... Come attori erano assolutamente inesistenti: rigidi, distanti, più preoccupati dal caldo (Isolde), o dalla posizione del corpo sulle gambe (Tristano), che dalla necessità di uscire da se per essere all’altezza dell’avvenimento.. Eppure John Treleaven non è un cattivo cantante: l'emissione è chiara, non sbaglia una nota, ma il canto non è ne piacevole ne espressivo , la voce non molto attraente, il personaggio un po’ trascurato. Violeta Urmana, grande Star della serata, sarà stata imperiale, come ha scritto un critico. Ma non distilla nessuna emozione: la voce agghiacciante e metallica della Nilsson ne dava ben di più, senza parlare della Ligendza, o della Meier, o della Polaski ! Certo la parte è tesa, difficile, certo le condizioni non erano forse ideali, ma la voce ha sempre dato l’idea di essere al di sotto delle possibilità, e la grande artista sembrava a sua volta assente. Tutt'altra la Brangäne fremente di Mihoko Fujimura, la cui tensione si leggeva sul viso, che provava a dare vita al personaggio, con una delle più belle voci del momento (Trionfa a Bayreuth come Fricka e Waltraute!). Lo ripeto, il suo "Habet Acht" rimarrà un autentico pezzo di antologia, molto presente e nello stesso tempo lontano e rassegnato , in osmosi completa con quello che succedeva in orchestra. Da notare anche il buono Melot di Ralf Lukas. E poi arrivo' Marke. E tutto cambiò: eravamo davanti all'evidenza di uno dei più grandi Re Marke (René Pape) mai sentiti. Una voce davvero questa volta imperiale, un volume che riempiva senza sforzo la sala, una tensione creata dal peso dato ad ogni parola, dalle sfumature su ogni sillaba, da un'attenzione serrata all'orchestra: insomma, un miracolo di intelligenza e sensibilità che creò davvero un'emozione insostenibile. Era IL personaggio, davanti a noi, che faceva nascere la magia del Teatro vero. Si percepiva perfino nell'orchestra questo fremito emotivo che ha trasformato la bellissima serata in grandissima serata. La sorpresa è arrivata dove nessuno se la aspettava: René Pape è da sempre considerato un cantante molto bravo, ma è diventato in queste 15 minuti di canto puro un cantante da leggenda. In una serata normale con un orchestra normale e un direttore normale, saremmo usciti pesantemente delusi dai protagonisti. Portati da un'orchestra d'eccezione, direi unica, e accompagnati da colleghi anche loro eccezionali, ci hanno reso felici e ci hanno commossi; siamo rimasti colpiti violentemente, soprattutto dalla parte finale, e in particolare dall'incredibile tensione creata dal direttore negli ultimi secondi quando, dopo la violenza espressa dalla musica, tutto cade nel buio totale e il brutale silenzio. Indimenticabile.
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