BOCCANEGRA 2002

La Stampa

La Stampa, 18 giugno 2002

UN MEMORABILE SPETTACOLO PER IL MAGGIO FIORENTINO, REGISTA PETER STEIN
Abbado e il Simone, ogni volta nuovo



FIRENZE
Secondo il metro di giudizio della cronaca resta un indubbio evento il ritorno di Claudio Abbado, da quando lasciò nel 1986 la Scala, sul podio di un'orchestra italiana, quella eccellente del Maggio Musicale Fiorentino, per questo «Simon Boccanegra» di Verdi concluso fra le ovazioni del pubblico in piedi. In termini puramente musicali è un avvenimento il fatto che Abbado, riprendendo l'opera che ha segnato l'intera sua carriera secondo l'allestimento di Peter Stein, già presentato in coproduzione con Firenze dal Festival di Pasqua a Salisburgo nel 2000, continui a infondervi ogni volta nuova vita, con sorprese in ogni dove e vertici emotivi senza pari. E si consideri inoltre che pareva già ineguagliabile la stringenza drammatica dell'anno passato nei più raccolti teatri di Ferrara, Parma e Bolzano. Diceva bene Stein da queste colonne: anche alle sue orecchie continua a risuonare nuovo il «Simone» scavato da Abbado. Apostolo di quest'opera in cui bisogna sempre districarsi fra personaggi sotto altro nome, legami filiali e amori, odi e trame politiche e agnizioni improvvise, il direttore ha quasi divaricato l'amore e l'odio, pur nell'unità data alla trama dalla musica: alludiamo all'abbandono infinito in tutta la sfera degli affetti, già dal Prologo, quando Boccanegra va in cerca dell'amata Maria, che troverà morta, ed evoca con tristezza di fronte a Fiesco le tracce perse della figlia nata da quella relazione, ugualmente Maria; per continuare con il lato oscuro e tagliente delle rivalità, fra il plebeo Boccanegra e i nobili Fieschi, e delle trame, coagulate intorno al nero Albiani. Ma sono appunto caratteri scavati all'interno della totalità dell'opera, di cui la scena del Consiglio, aggiunta da Verdi col rifacimento nel 1881, è il formidabile nucleo. Formidabile anche per come l'ha concertata Abbado, già da quando la folla preme alle porte, con il brulicare dei violini in buca e il coro fuori scena, poi l'arrivo di Adorno e Fiesco catturati quali sediziosi, il fulminante colpo di scena di Amelia ovvero Maria che s'interpone fra la spada di Adorno e Boccanegra (l'innamorato che ucciderebbe il padre di lei), e poi l'accorato appello alla pace di Boccanegra, con quel controcanto dei violoncelli, seguito dall'entrata estatica del coro e degli altri personaggi. E dopo il sublime, ecco il demoniaco, la maledizione di Boccanegra contro l'orditore delle trame, cioè Albiani, con l'urlo dei tromboni e lo strisciare sinistro del clarinetto basso. Della miriade di particolari, anche di struttura, evidenziati da Abbado godranno i fortunati nelle repliche; qui urge sottolineare l'accresciuta maturità di Carlo Guelfi, un Boccanegra di macerata umanità, e l'intelligenza musicale di Karita Mattila, voce integrata nel tessuto dell'orchestra, capace di rivelare anche nella parola il tormento di Maria/Amelia. Per il resto la compagnia faceva i conti con l'intonazione a rischio di Vincenzo La Scola (Adorno), i borborigmi gutturali di Julian Konstantinov (Fiesco), il raffreddore di Lucio Gallo (Albiani). Nell'adattare al palcoscenico più piccolo la scena di Stefan Mayer, la regìa ha acquistato in coerenza; il gusto per il macabro è rimasto, compresa l'esposizione della bara della Maria defunta, con l'assurdità di Boccanegra che ci gira un po' attorno senza accorgersene. Tuttavia la mano del grande regista lascia il segno, nella leggerezza di Amelia che danza al ritmo della canzone fuori scena di Adorno, ancor più nel finale, quando l'avvelenato Boccanegra spira poggiando il capo in grembo alla figlia: con l'orchestra che tiene e sfuma fino a morire l'accordo finale, a sipario calato, con la fossa al buio, solo una fioca luce per Abbado, poi neppure più quella. Memorabile.

Giangiorgio Satragni