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BOCCANEGRA 2002

Pubblichiamo un contributo originale del nostro socio Francesco Gala, studente a Cremona, che ha scelto Simon Boccanegra come tema della sua Tesi.

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BOCCANEGRA 2002

Un contributo originale

Firenze, giugno 2002

Riflessioni all'ascolto del "Simon Boccanegra" diretto da Claudio Abbado

E' da più di trent'anni che la rivelazione del "Simon Boccanegra" diretto da Claudio Abbado è destinata a rivestire un ruolo insostituibile nell' esperienza musicale e teatrale di ogni spettatore d'opera che si rispetti. Di rivelazione per l'appunto trattasi dal momento che già al suo primo apparire - quel 7 dicembre del 1971 alla Scala di Milano (per la verità già a Monaco nel luglio dello stesso anno, regia di Otto Schenk) - la lettura del capolavoro verdiano offerta dal direttore segnò una tappa epocale nella storia dell'interpretazione musicale del XX secolo.

Oggi l' allestimento di Strehler, realizzato con l'apporto di un cast di indimenticabili artisti lirici, resta avvolto in un' aura mitica, da molti commentatori additato come "il più grande spettacolo d' opera di tutti i tempi". Nulla di irriverente in questa affermazione, dettata dalla consapevole riflessione che nel "Boccanegra" di Abbado-Strehler trovarono la sintesi e la più compiuta fusione tutti i criteri esecutivi e interpretativi dettati dalla prassi esecutiva operistica novecentesca, l'unica di cui abbiamo diretta esperienza - il nostro tempo è dunque "tutti i tempi".

Quali gli elementi di tale congiunzione artistica? Il ruolo espressivo, dinamico e coloristico della compagine orchestrale, luogo deputato alla messa in atto della chiave di lettura da parte del concertatore-direttore; la teatralità dell' interprete vocale, attraverso l' interiorizzazione del canto, guidato dalla necessità di restituire al pubblico un personaggio psicologicamente definito ; il mandato ermeneutico del regista che si esprime in una serrata conduzione del cantante-attore, collocato in un contesto scenografico e figurativo di forte impatto concettuale. Questi elementi e molti altri ancora, se ci fermassimo ad analizzare come tali prospettive interpretative si sono reciprocamente rapportate e unificate, bastano certo al "Simone" di Abbado per meritare il posto privilegiato che gli spetta nella storia dell' esegesi musicale e della sua ricezione. Non di meno fu il contesto culturale e politico dei primi anni ' 70 a determinare quel grandioso evento artistico (o fu esso stesso determinante?) e a conferirgli la cifra particolarissima che lo distingue, persino tra tutte le memorabili interpretazioni abbadiane sino ad allora ed in seguito ammirate. Quel contesto civile che si esprimeva nella funzione sociale e comunitaria a cui il teatro, non solo quello lirico, assolveva trent' anni fa in Italia; luogo, il teatro, deputato alla configurazione e alla riflessione di problematiche comuni, fossero esse di carattere etico, morale o politico, istanze che nella rappresentazione artistica trovavano la più compiuta impressione.

Con "Simon Boccanegra" - l'opera più complessa e irrisolta di Verdi - si completa infatti quella trilogia che comprende "Don Carlo" (sempre con Abbado nel 1968) e "Macbeth" (1975). "I miei tre malati" come li chiamava il suo autore, suggerendone così il carattere aperto di works in progress; capolavori accomunati, con altri nel catalogo verdiano, dal tema centrale del rapporto fra individualità e potere.

Fu proprio quella del "Boccanegra" l'esperienza più cara ad Abbado negli anni della Scala, condotta dal Maestro sempre seguendo la versione del 1881 - realizzata da Verdi con la collaborazione di Boito - la più ricca di colore orchestrale e inclusiva di uno dei più alti momenti della storia del teatro musicale: la scena nella Sala del Consiglio.

Abbado sceglie Firenze per riproporre lo spettacolo, già presentato al festival di Salisburgo nell' aprile del 2000 con l'allestimento di Peter Stein e l'anno successivo accompagnato nel corso della tournée italiana (regia del collaboratore di Stein, von Maldeghem) a Ferrara, Parma e Bolzano. Il ritorno di Abbado, da anni assente alla guida di una orchestra d'opera italiana, e la scelta del capoluogo toscano premiano questa storica istituzione musicale italiana, sede del Maggio Fiorentino. E' un riconoscimento importantissimo che omaggia un' intelligente programmazione operistica realizzata col contributo di un' ottima orchestra, di consueto affidata ad un direttore come Zubin Mehta. E' certo - non dimentichiamolo - che la presenza di Abbado si debba proprio al sodalizio col maestro indiano nonchè alla ventennale amicizia con Cesare Mazzonis, oggi direttore artistico del Maggio.

Un approfondimento sul "Boccanegra" che si ponga l'obiettivo di individuare come, attraverso gli anni, l' esegesi di Abbado si sia modificata maturandosi, richiederebbe amplissima analisi. Il Maestro, nell' intervista pubblicata nel programma di sala, ha sottolineato come una maggiore fluidità contraddistingua oggi il suo "Simone"; "per esempio" afferma "certi tempi d'esecuzione sono più scorrevoli e legati".

Già nel '71 Abbado colse, e con esattezza ineccepibile, la cifra caratteristica dell' orchestrazione di quest' opera. Quella ricerca di varietà timbrica e coloristica che tratteggia le sagome e le tinte del mare, disegnando le gravi architetture del palazzi genovesi, accendendo e smorzando sino ad impercettibile fiammella la luce del giorno e delle stelle. Questa "cultura del suono" è certo frutto, anche, della profonda e assidua frequentazione del repertorio novecentesco, scandagliato dal direttore proprio rivelando quella "dottrina del timbro" che è propria dell' esperienza compositiva del secolo trascorso. E non si esclude certo che l'amatissima partitura de "La mer" di Debussy non suggestioni Abbado anche contemplando il mar ligure del suo amato doge.

E' importante a questo punto ribadire che nelle realizzazioni del direttore questa predilezione timbrica da sempre si tiene lontana da un edonistico compiacimento oltre che da una sterile mimesi sonora. Con sorprendente e misteriosa metamorfosi è infatti il suono stesso qui a farsi gesto teatrale, rivelando, proprio in virtù di tale articolato mutamento, nuova e più sorprendente natura.

Sconfitto resta, e in partenza, il povero commentatore che rimane nell'imbarazzo di ritrovarsi a descrivere ciò che sembra continuamente sfuggire alle gabbie delle definizioni e delle argomentazioni. Al principio allettato dall' idea di descrivere le esperienze vissute anche a chi l'opera non l' avesse vista rappresentare si è poi visto costretto a recensire lo spettacolo ricorrendo non di rado - proprio in virtù delle suggestioni visive suscitate dell'orchestra di Abbado - all'ausilio di termini desunti dall' ambito linguistico proprio dell' arte figurativa, nel vano tentativo di raccontare ciò che in realtà, mai come in questo caso, può essere solamente visto - o meglio, solamente ascoltato. Non è azzardato affermare che pensare di riuscire completamente in questo intento equivarrebbe ad illudersi di poter far vibrare davanti agli occhi di un cieco gli affreschi della Sistina.

Mi perdonerà chi legge se le osservazioni che seguono sembreranno anche tradire il rigore formale a cui si augurano di tener fede il più possibile, per abbandonarsi talvolta all' onda emotiva ; ma uno spettacolo di Abbado si racconta anche così, portando con sè parte di quell' incontenibile coinvolgimento cui ci si è abbandonati in teatro, insieme ad un pubblico incollato alla poltrona, con gli occhi sgranati.

Ecco alcune riflessioni musicali e teatrali a cominciare dalla scena del Consiglio.

Di impatto travolgente è il lucentissimo squillo degli ottoni, ad imprimere tinta drammatica e severa all' assemblea dei consiglieri. Il colore ottenuto è quello vivido e abbagliante delle trombe del Giudizio Universale così come le ascoltiamo nel Requiem. In un gesto - lo si è anticipato - pittorico e teatrale insieme, Abbado tratteggia la pressante circostanza politica che chiama a conferenza i rappresentanti di plebe e popolo nel palazzo degli abati. Poco oltre la perorazione di Simone è interrotta dal breve motto di Paolo ("Attenda alle sue rime") accompagnato in orchestra dalla sardonica frase affidata ad archi e legni. E' sorprendente come Abbado rilevi il movimento danzante della melodia in omaggio alla diabolica perfidia del capopopolo, personaggio che proprio in virtù della rielaborazione librettistica di Boito assume qui, e altrove, connotazione mefistofelica... Si ascolti il trillo che chiude la frase; il capolavoro dello scapigliato si affaccia per un momento col suo carismatico protagonista.

E' un miracolo di sconcertante acume analitico la conduzione operistica di Abbado, che ci invita a penetrare - ma sempre con entusiastica ed elettrizzante partecipazione - nel capolavoro verdiano, mai concedendo allo spettatore un solo istante di tregua emotiva e intellettuale. La tensione emozionale si fa sconvolgente quando il popolo irrompe nel palazzo del doge. Dapprima la turba è intesa da lontano, illustrata in un' orchestra che ruggisce col più rabbioso palpitare; ansima, a suggerire i passi del "volgo gentilesco e plebeo". Ne ritma l'incedere sugli arpeggi degli archi e sul tonfo sordo e greve del timpano. E? davvero la polvere del suolo battuto da mille popolani e mille patrizi ! Ma in breve tutto è silenzio; un silenzio assoluto e tesissimo. Poi l'apoteosi.

Qui l'equilibrio ottenuto nella concertazione di Coro e orchestra è semplicemente sbalorditivo. Il popolo piomba in scena mentre l'amalgama delle voci e dell'organico strumentale raggiunge una potenza tellurica inaudita. Lo spettro delle dinamiche offerte dalla compagine orchestrale condotta da Claudio Abbado non conosce neppure il più impercettibile scarto. Una serie incalcolabile di livelli acustici si presenta di volta in volta alle orecchie dell' ascoltatore; si transita - percorrendo una miriade di quantità sonore dalle più variegate colorazioni - dal più impercettile pppp, un gemito di diafana bellezza, al più inumano schianto, un urlo di primitiva potenza, una catastrofe cosmica.

Ricordo che quando lo spettacolo fu ripreso a Bolzano, il regista von Maldeghem precipitò il Coro in scena facendolo in buona parte accedere dalla platea - inequivocabile appello alla partecipazione del pubblico ed efficacissimo coup de théâtre.

Il disegno tratteggiato da solisti, orchestra e Coro impegnati nel ripercorrere la complesse architetture del concertato, cuore della scena del Consiglio qui brevemente analizzata, è di nitore e respiro abbagliante; le frasi musicali s' armonizzano con tale trasporto e compiutezza che davvero sembra intravedere "vol di soave vento / che rasserena il mar". Poi ancora un colore, quello cinereo dei fiati e il balzo spaventoso degli ottoni; improvviso, a gelare il sangue nelle vene.

Nel monologo di Simone il controcanto del clarinetto basso si spiega col più insinuante incedere; il suo attacco - su una pausa che è tensione angosciosa - è talmente impercettibile da far sembrare che il suono si sia generato nella sua stessa materia, con enigmatico addensamento. Così come nella fantasia di Strehler le figure del Prologo apparivano dal buio, proiettate nella notte eterna, qui il suono dello strumento risale a noi come provenisse da un' altra dimensione. Il cataclisma che Abbado ottiene sulle ultime battute dell'atto è inenarrabile: tutto espresso in un ffff insostenibile, seguito dal sibilo agghiacciante del Coro: "Sia maledetto!!!".

L'esempio di Romano Gandolfi - nel 1971 e sempre negli anni a seguire - fu da lui stesso generosamente riproposto al pubblico nella passata tournée italiana del "Simone", alla testa dello splendido Coro dell'orchestra sinfonica G.Verdi di Milano. La sagacia espressiva fondata sulla più puntuale, scolpita impressione della parola scenica verdiana fece del Coro di Gandolfi l'autentico personaggio che si richiede e si amerebbe sempre vedere e ascoltare in teatro. Tale altissimo precedente è raccolto da José Luis Basso, alla guida della compagine fiorentina; il risultato è paragonabile a quello raggiunto dall' anziano maestro al punto da non escludere che dietro a tante premure si celino le indicazioni dello stesso Abbado. Così pure il direttore è artefice dell' accuratissima collocazione scenica ed extra-scenica di coristi e ottoni; l'effetto di straordinario realismo ottenuto anche nel Prologo - momento in cui intendiamo le voci dall' interno del palazzo dei Fieschi - o, a titolo di esempio, nell'ingresso del doge al primo atto - l'effetto - dicevo - è talmente convincente ed equilibratissimo da riuscire a sommarsi alla perfezione con l'orchestra in buca, costruendo anche qui un sapientissimo gioco di equilibri timbrici e dinamici.

Nel "Simone" di Abbado rilevantissimo valore è dato alla tinta cinerea che avvolge le atmosfere più grevi evocate dalla partitura. Una patina tenebrosa e onirica è la cifra caratteristica dell'intervento di Albiani nel Prologo ("L'atra magion vedete"); i legni si tingono di venature antiche - e morbidissime, proprio sugli interventi del coro. Quando la feral vampa appare il suono del flauto si assottiglia a suggerire il chiarore di un lumicino; è un bianco limpido e mortifero. Nell' intendere il rischiararsi di certe zone d'ombra si sarebbe tentati di portare ad esempio l'impiego della luce nelle opere del Tintoretto, così drammatica e vibrante.

Poco oltre giganteggia il primo duetto tra Fiesco e Simone. Qui Stein lavora sulla caratterizzazione dei personaggi, imprimendo col gesto registico stati d'animo suggeriti da un infallibile intuito drammatico. Vediamo il vecchio patrizio respingere con l'atto della mano il corsaro Simone, colto nel vano tentativo di abbracciarlo; nel terzo atto, in extremis, sarà egli stesso, Fiesco, a cercare un contatto con le mani del doge Boccanegra. Che commozione guardarlo vincere le proprie prevenzioni e stringere a sè, con lentissimo approccio, il tanto odiato nemico! E' un contatto progressivo e disperato che in gesti di intensità straziante ci rende partecipi di una nostalgia e di una tenerezza infinite; una angosciosissima riconciliazione mentre il canto e l'orchestra si struggono sul metafisico cantabile degli archi.

Di ombratili atmosfere si tinge anche il duetto tra Fiesco e Gabriele ("Vieni a me, ti benedico"); la quiete solenne e remota, quasi irreale del giardino dei Grimaldi, si dipana placida e sospesa, nell' ipnotico pedale degli archi gravi. L'agogica si distende in un largo estatico che parrebbe prolungarsi in infinito unico sospiro.

La precisa concettualizzazione dell'elemento cromatico nell' intervento registico raggiunge uno dei suoi momenti più interessanti nel primo atto dove, in un paradiso di incontaminata luce bianca, Stein contempla Simone e Amelia nel duetto dell' agnizione.

Una netta contrapposizione invece tra l'azzurro e il nero delimita il mondo di Amelia dalla realtà che la circonda. Il sipario, come è noto, si apre sul preludio dell' aurora; in orchestra si evocano i sussurri dell'alba - i legni in orchestra suonano con timbro luminoso e lontano. Accompagnano in scena la figlia di Simone - qui avvolta nel manto bianco e turchese di una divinità fluviale. La linea melodica duttile sino a quel momento cede in un soffio al rapsodico "Come in quest' ora bruna". E davvero qui "sorridon gli astri e il mare" !! Li contempliamo riflettersi nei dolcissimi arpeggi sussurrati di ottavino, flauti e clarinetti sul palpitare estatico degli archi; si rabbrividisce al solo pensiero di veder affidare ad altra bacchetta un simile squarcio, tanto delicato per il sostegno del canto e il tratteggio della pittura sonora.

L'arrivo di Gabriele è salutato da Amelia con un leggero passo di danza. Il palcoscenico ora si separa in due per mezzo di una parete nera. Sul fondo l'azzurro del cielo e del mare. Questo - sembra spiegarci Stein - perchè la mente di Amelia torna a più gravi pensieri; quegli stessi timori che invita Gabriele a riparare nelle braccia dell' amore. E' poi lei stessa a tentare di condurlo verso il fondo illuminato della scena; là è il mondo delle potenze generatrici, della distesa marina, degli affetti perduti; là è anche il mondo di Simone.

Ha ragione Abbado a riconoscere in Peter Stein un regista che sa costruire tensioni sempre teatralmente stimolanti, guidato da una conoscenza niente affatto comune del materiale musicale e del suo costruirsi attorno al nodo drammaturgico.

Gioco sorprendente di campi e profondità è inventato nel terzo atto; ancor più sbalorditivo perchè il palcoscenico non è ingombro di alcun elemento scenografico. Eppure, all' aprirsi del sipario, lo spettatore assiste a una gestione spaziale strutturata su tre piani differenti; gli uomini con fiaccole sul boccascena, l'araldo di lato e sul fondo Gabriele e Amelia ai piedi di una Madonna col Bambino. Questa soluzione, efficacissima sul piano figurativo, risolve in tre gesti una scena di complessa realizzazione se si accetta di mantere integra allo spettatore - proprio dal punto di vista visivo - ogni suggestione musicale e teatrale suggerita in partitura.

Si è detto dei colori tenui e dei suoni di natura così mirabilmente evocati dall'orchestra.

E il mare? E' questa l'anima di Simone, l'immagine potentissima del tempo preduto, l'ultimo saluto del corsaro alla vita. Se non si avesse timore di sminuire agli occhi del lettore il tratto poetico e drammatico con cui Abbado fa vibrare la marina brezza, si sarebbe tentati di definire il risultato ottenuto in orchestra frutto di ricerca realistico-sonora, quasi mimetica. Questo perchè - veramente - il mare di Genova lo vediamo. E non esclusivamente per l'impiego dell'immagine fissa scelta da Stein a visualizzare le onde e i riflessi di luce (von Maldeghem optò per un filmato) ma perchè proprio di questa riproduzione immobile ammiriamo lentamente l'animarsi. Abbado compie una magia di suoni mossi in andamento placido e fremente al tempo stesso sulle parole di Simone:

" [...] Ah ch'io respiri

L'aura beata del libero cielo!

Oh refrigerio! ...La marina brezza! ...

Il mare! ... Il mare! ... quale in rimirarlo

Di glorie e di sublimi rapimenti

Mi si affaccian ricordi!

Il mare! ... Il mare! ...

Perché in suo grembo non trovai la tomba? ..."

Il mare di Abbado ci avvolge nella sua onda, ampia e solenne che si fa gentile e andante nella "barcarola" del Prologo, palpitante, infida quando si fa cerula agli occhi di Amelia. Una distesa d'acqua screziata da riflessi d'argento è presto nell'immaginazione di un pubblico che per un attimo crede riviverne anche il profumo.

La tavolozza coloristica e dinamica ottenuta da Abbado conosce anche lo sbalzo epico e tesissimo del canto di battaglia dei patrizi liguri - il coro è, ancora una volta, in stato di grazia.

Conosce gli accenti rauchi dell' agonia di Simone affidati ai corni che, dilatando il suono, squarciano la limpida trama del tessuto orchestrale in un lamento disperato e dolorosissimo.

Conosce Abbado come scolpire il tonfo greve e tremendo del timpano che sigla in patto tra Paolo e il nuovo doge Boccanegra. Il tocco severo è eseguito in lieve e meditato anticipo sull'accordo di tonica; è il balzo mortale del libero arbitrio, lo sguardo sul mistero profondissimo dell'uomo. Lo riascoltiamo all'ingresso di Simone nel primo atto; con pari immutata gravità il timpano ripete il proprio gesto in sottile anticipo sull'orchestra.

E' inequivocabile: ci ricorda la scelta di Simone, il suo tormentato cammino che proprio qui ha inizio.

Da ormai parecchio tempo è argomento delicato da trattare quello che riguarda le voci verdiane; tema reso spinoso dalla scarsa disponibilità di cantati in grado di affrontare compiutamente parti di ardua difficloltà esecutiva e interpretativa.

Nel caso di un "Simon Boccanegra" la questione tenderebbe a divenire ancor più scottante se chi scrive non tenesse in adeguata considerazione le suddette limitazioni.

Gli artisti convocati da Claudio Abbado ad affrontare questo "pericoloso" titolo operistico, possiedono non poche virtù, destinate a convivere con alcune manchevolezze.

Se, infatti, lo spettatore non può non apprezzare nel baritono Carlo Guelfi la lodevolissima volontà di ricercare nella propria natura di artista i tratti di un Simone colto sempre in intimo colloquio con sè stesso e realizzato con una vocalità fortunatamente lontana da esibizionismi, va sottolineato che questo corretto indirizzo interpretativo si realizza mediante un' emissione quasi interamente risolta - specie nel registro acuto - col supporto del setto nasale. Il risultato è dannoso perchè destinato a ridimensionare l'impeto e il respiro di molte frasi, andando incontro al rischio di rimpicciolire - insieme alla voce - anche la statura drammatica del protagonista. Un Simone dunque, quello di Guelfi, da maturare vocalmente e da approfondire interpretativamente.

Identici suggerimenti valgono anche per l' Amelia di Karita Mattila, dotata di un materiale di notevolissimo pregio timbrico e fornita di acuti di ragguardevole spessore sonoro. Talvolta la voce indugia pericolosamente in suoni fissi, a scapito - è inevitabile - dell' intonazione e il fraseggio non sempre è impeccabile. Nei momenti migliori si riescono a cogliere i tratti di una Amelia affascinante che sarebbe un peccato non rimeditare.

Il basso Julian Konstantinov ha interpretato Fiesco ormai molte volte con Abbado; sfodera cospicuo volume di voce e timbro assai brunito - indispensabile per sostenere la parte. Il personaggio sta lentamente crescendo nelle corde di questo cantante - "Il lacerato spirito" è affrontato con sicurezza - ma le carenze tecniche non si possono e non si devono aggirare. Anche qui il fraseggio dovrebbe, col tempo e con lo studio, risultare più nitido.

Vincenzo La Scola possiede l'accento giusto per definire Gabriele; "porta la voce" seguendo i precetti del canto italiano, mantenendosi sempre limpido sulla parola. Unico neo, certo non trascurabile per un tenore, è l' integrità del registro acuto, oggi fatalmente compromessa.

La sera della prima una spiacevole indisposizione ci ha privati del Paolo di Lucio Gallo, che - pur sostenendo ugualmente la parte - non può compiutamente replicare l' ottima caratterizzazione del popolano che propose al pubblico nel 2001. Bene i restanti comprimari, segnatamente il Capitano di Enrico Cossutta.

Come si è visto - seppure in brevissima analisi - l' impostanzione del "Boccanegra" di Abbado-Stein rimanda ad innumerevoli piani formali, musicali e teatrali, costruiti intorno alle infinite possibilità offerte dal capolavoro di Verdi. E' naturale che le prospettive interpretative suggerite da questa indimenticabile occasione artistica sono - così come fu per l'edizione degli anni '70 - tutte da formulare e vagliare. Crediamo sia giusto ricondurre strutture formali ed esegetiche di direttore e regista ad un unico elemento portante che è possibile riassumere in un raro binomio: comune intenzione.

Si rifletta ad esempio sulla scena sesta del Prologo, quella del rinvenimento del cadavere di Maria.

Nella realizzazione di Abbado-Stein si coglie chiaramente un aspetto rilevantissimo dell'organizzazione scenica e concettuale del progetto verdiano. Simone si avvicina alla porta del palazzo dei Fieschi; picchia tre volte. Il suono dei colpi proviene dalle quinte. Lo percepiamo in sala; sordo, tremendo. Vediamo il personaggio entrare nell'abitazione - suggerita da uno spazio chiuso e circoscritto - e lo scorgiamo sul fondo della scena spostarsi ora da un lato e ora dall' altro. Grazie alla luce tenue delle candele abbiamo già intuito - durante la breve processione a conclusione dell'aria del basso - che lo spazio al centro della stanza è occupato. Ora invece il buio è pressochè totale e Boccanegra non intravede nulla, pur restando sempre vicinissimo alla bara, posta, appunto, al centro della camera. Fiesco si sporge minaccioso sul proscenio, dal lato destro e, mentre l'orchestra commenta col sospirare degli archi, insospettatamente, come per opera di crudelissima mano, la stanza si illumina mostrando Simone in atto di scorgere disperato la salma distesa. Poi fugge all'esterno, sulla piazza: "E' sogno! ... Sì, spaventoso, atroce sogno il mio!". Qui riascoltiamo il tonfo del timpano, mai così terribile. Gli fanno eco le voci del Coro, da lontano. A questo punto il proposito del regista si somma a quello del direttore; il tema festante che conduce in scena il popolo mai infatti fu percepito così volutamente inopportuno.

Come per la luce della stanza, guida il tema uno spirito mailgno e fatalissimo; come per la luce nella stanza è un gesto esterno, non determinato dalla contingenza (o invece è determinatissimo?). Abbado conduce lo strumentale con la più brillante scioltezza e - non prima delle parole "una tomba...un trono! ..." - l'orchestra raggiunge la soglia della più travolgente potenza sonora. E' una furia che stordisce Simone e, insieme, lo spettatore. Il popolo porta il doge in trionfo così come - a chiudere il cerchio vitale - farà col suo cadavere. Mai come questa volta tomba e trono sono state così vicine.

Da sempre Claudio Abbado imposta su queste basi lo spettacolo lirico; all'insegna della più stretta collaborazione fra tutte le componenti chiamate con lui a riedificare l'edificio drammaturgico e musicale.

Alcuni equivocano un elemento di fondamentale importanza lodando la sensibilità del direttore; ne ammirano "il rispetto per il canto", come se si trattasse di ascrivergli un atteggiamento di diplomatica premura nei riguardi degli interpreti vocali. Non è certo una semplice considerazione quella riservata da Abbado al canto lirico ! In queste indescrivibili interpretazioni risiede infatti la più profonda convinzione di come uno spettacolo d'opera - sommate tutte le sue componenti - si debba portare a compimento.

Ma - lo si è brevemente anticipato - in questo "Boccanegra" c'è ancora di più: qui è il suono stesso, nella sua più intima essenza, a tradursi in gesto teatrale; è il suono stesso a farsi teatro.

Inesausta è la crescita dell' interpretazione abbadiana; una riflessione ininterrotta sull'opera d'arte, condotta da chi come lui ne legge e interpreta i segni con amore incondizionato. Un privilegio riservato a chi sa rinvenire nella partitura le verità più segrete, senza mai volgersi al testo con la diffidenza di un approccio sterilmente analitico ma sempre instaurando con esso intensissimo dialogo, al quale lo spettatore è, con sua meraviglia, continuamente sollecitato a prendere parte.

Ogni ascolto con lui è un'epifania inesauribile come lo sono solo i grandi capolavori.

Un momento del terzo atto colpisce ancora una volta l'attenzione dell' ascoltatore; è la frase di Paolo, a breve condotto al patibolo. Così commenta il proprio destino: "Il mio demonio mi caccio' fra l'armi / Dei rivoltosi e la' fui colto; ed ora / Mi condanna Simon; ma da me prima / Fu il Boccanegra condannato a morte." Il canto è sostenuto dall' arcata languida dei violoncelli; un lamento dolente e al tempo stesso severo, ineluttabile. Il passo ricorda una pagina di Musorgskij, non c'è dubbio.

Eppure nessuno se n'era mai accorto prima d'ora; così, invece, da adesso, lo percepiremo ad ogni ascolto proprio grazie a questa nuova lettura abbadiana. I momenti che seguono - il richiamo celestiale del coro interno, la sospensione del suono orchestrale, gli accenti marmorei di Paolo e Fiesco - ci rimandano poi del tutto a quelle atmosfere rituali, mistiche e insieme umanamente vibranti evocate dal genio russo.

Sarebbe necessario condurre anche un' approfondita riflessione sulla lettura politica del "Simon Boccanegra" proposto trent' anni fa da Abbado e su come oggi tale indirizzo interpretativo si sia sviluppato e modificato. Le "grida di senno e di giustizia" sono ormai da tempo tornate ad essere quelle "di donne e di fanciulli". E' a questo punto naturale domandarsi se il "Simone" pubblico ceda, e in quanta parte, alla dimensione privata e individuale.

Lascio aperta la questione, non avendo del resto, per il momento, alcun elemento per concluderla. Chiudo trascrivendo un pensiero di Cesare Mazzonis - riportato nello scritto pubblicato sul programma di sala.

L' intuizione, nella sua limpidezza, mi pare rischiarante: "Così nel nostro tempo, che sembra tanto cieco a quello che accadrà dopo, e pronto a infischiarsene di tutto salvo ciò che significa profitto immediato, e così capace di rovinare il luogo della vita (la Terra) o di sedere stolidamente sui vulcani in ebollizione, o di tutto risolvere con gesti bestiali, col fanatismo e l'idiozia, la lezione verdiana di Simon Boccanegra sembra assumere un segno morale molto preciso."

La conclusione della vicenda umana e politica del doge Boccanegra si presenta agli occhi di molti commentatori con l'aspetto di una disfatta totale, ennesimo affondo del pessimismo verdiano nelle cerezze e nelle risorse più vigorose dell'uomo. Troppo tarda è la riconciliazione di Simone con Fiesco, e ancora tutte da assaporare restanno le gioie dell' amore filiale.

Proprio quando "gli odii funesti han fine", il dogato passa alle irrequiete premure di un uomo come Gabriele Adorno.

Eppure - nello stesso istante in cui l'ultimo granello di suono si scioglie nell'aria del teatro - noi pensiamo con Abbado all' inesausta fiducia con cui ci ostiniamo a credere nelle facoltà umane; certezza espressa dal Maestro nella volontà stessa di fare musica e teatro insieme. Ci sentiamo avvolti da un profondissimo respiro di assoluto, in un momento di quelli che valgono una vita intera. E' come un abbraccio che vuole srtingere a sé l'umanità tutta, con quella stessa voglia di continuare a credere e a sperare che accomuna Verdi al suo più grande interprete.

Francesco Gala