LA CRONACA
 DEL WANDERER
N°76

Lucerne Festival 2004

Apollo & Dioniso

Guy Cherqui


Il secondo concerto 2004 della Lucerne Festival Orchestra

Auditorio del KKL

13 agosto

Richard Strauss
Vier letzte Lieder
Renée Fleming, Soprano

Richard Wagner
Tristan und Isolde
Atto II
John Treleaven, Violeta Urmana, Mihoko Fujimura, René Pape ...

Lucerne Festival Orchestra
CLAUDIO ABBADO

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Lucerna 2004













































































































































































































































































































APOLLO E DIONISO



Il secondo concerto del ciclo della Lucerne Festival Orchestra offriva un programma eccezionale : il quarto concerto per pianoforte di Beethoven con Maurizio Pollini e la quinta sinfonia di Mahler, che Claudio Abbado non aveva diretto da qualche anno. Vedere insieme Claudio Abbado e Maurizio Pollini è sempre fonte di gioia e di emozione: tutta la storia dell’interpretazione degli ultimi quarant’anni è legata al lavoro di questi due amici di cui parla l’intervista del Corriere della Sera che pubblichiamo.

Un secolo separa il quarto di Beethoven dalla quinta di Mahler. Le due opere sono apparse come una svolta nel percorso compositivo dei due musicisti: il pubblico accolse il concerto di Beethoven come una novità assoluta nella letteratura per pianoforte, mentre la sinfonia di Mahler, la prima senza programma “ufficiale”, sconcertò gli auditori, soprattutto nei due primi movimenti. Nei due pezzi si legge un’alternanza tra dolcezza e violenza, tristezza e leggerezza. Il secondo movimento del concerto per piano, con il suo tema che sembra a poco a poco diluirsi, frammentarsi, fino alla pace finale, il dialogo tra un’orchestra austera e un po’ rude e un solista più tenero che suona come un lamento, può ricordare per certi versi i contrasti che Mahler mette in moto nella sua sinfonia.

Siamo sempre colpiti, ascoltando Maurizio Pollini, dalla purezza del suono e dal tocco: si sente ogni suono ben separato dal resto, eppure nello stesso momento non c’è mai l’impressione dello “staccato”, ma piuttosto di un legame permanente tra una frase e l’altra. Forse questo lo accomuna a Claudio Abbado, che pur cercando di far sentire ogni nota di ogni strumento, non dà mai l’impressione di frammentazione e non fa mai dimenticare l’architettura globale dell’opera eseguita. C’è inoltre questo paradosso di un’artista la cui sobrietà nel suonare il pianoforte è leggendaria, che alcuni definiscono addirittura freddezza, e che pure fa esprimere l’emozione come se uscisse la musica pura, sgomberata dalle scorie di un’ interpretazione troppo personale. Esattamente come Pierre Boulez in orchestra (altro artista considerato spesso “freddo”), Pollini sembra creare le condizioni dell’emozione estetica solo facendo sentire le note senza fioriture, in modo completamente autosufficiente – In ogni caso, Pollini è per il pianoforte quello che Boulez è per l’orchestra: onestà, rigore, conformità al testo . Nell’interpretazione del quarto, Pollini instilla un clima di concentrazione (in particolare nel secondo movimento dove la cadenza finale creata da Pollini cambia tutto il colore del pezzo) tale da suscitare addirittura tensione, quella tensione produttiva che fa entrare lo spettatore nel cuore vitale del pezzo. E l’orchestra non si comporta da accompagnatore; il modo in cui i musicisti ascoltano il pianoforte fa pensare piuttosto al modo in cui si ascoltano le parti diverse di una formazione cameristica.
Dal 2000, sappiamo che il Beethoven di Abbado è cambiato radicalmente , più snello, più energico, più contrastato anche, a volte lacerante, a volte dionisiaco. Non si può dire che in questo caso l’orchestra sia un’appendice del pianoforte, bensì ne è la continuazione: basta sentire nel primo movimento, dopo l’intervento iniziale del pianoforte, il modo in cui attacca l’orchestra, quasi senza rottura con lo strumento solista, come se fosse lo stesso pianoforte a frammentarsi in tanti suoni diversi e a creare polifonia. Ecco quello che ci colpisce: il modo in cui orchestra e piano si intrecciano, si abbracciano: non c’è dialogo frontale, c’è assoluta unità di un coro a due voci che si riprendono a vicenda la parola.

Quella sintonia è quello che ricorderemo di questo momento: sintonia nei tempi scelti, nell’ascolto reciproco, nel fare musica insieme che coinvolge tutti. Non c’è più solista e orchestrali, c'è un corpo unico che respira un Beethoven trasparente, urgente, essenziale.

La quinta sinfonia di Mahler rinvia per molti all’adagietto immortalato da Visconti in “Morte a Venezia”. Osservando Abbado durante le prove e ascoltando l’intera sinfonia, ne usciamo frastornati dalla sua complessità e dalla sua costruzione che fa dello scherzo la chiave di tutto l’edificio. In questo contesto, l’adagietto è un momento particolare, splendido ma anche un po’ “décalé” di quest’edificio, una sorta d’isola felice in mezzo alle tempeste.

Lo abbiamo detto sopra, la quinta è la prima sinfonia di Mahler senza chiaro programma, dove la vocalità sparisce per lasciare l’orchestra protagonista, come nella sesta e la settima. Momento centrale nel percorso mahleriano, dove l’angoscia si contrappone alla gioia e all’ottimismo. Inizia con una marcia funebre e finisce con un rondo’ gioioso, forse un po’ forzato: morte, vita, ironia, amore, gioia sono i luoghi di questa mappa del Tenero tutta mahleriana che Abbado ci ha fatto attraversare.

Mai ci era apparsa così chiara l’architettura della quinta sinfonia: i due primi movimenti, uno più lento ed eclatante, l’ altro più rapido, addirittura al limite del possibile : forse il momento più impressionante rimane il finale del secondo movimento, stürmisch bewegt [movimento tempestoso] che lascia tutti di stucco. Il terzo movimento, lo Scherzo centrale così complesso non ci dà mai soluzione di continuità tra uno strumento e l’altro, tra una nota e l’altra, spesso strutturato come una “decostruzione” del Walzer e del Laendler, una danza vertiginosa al limite del grottesco scandita dal corno completamente scoperto, con i suoi momenti sospesi – e fiato sospeso…- dovuti a strumenti scoperti: tecnicamente ineccepibile il lavoro del corno che riesce ad ammorbidire il suono fino a quel momento magico dove non c’è ancora il silenzio e non c’è più suono allo stesso tempo, quel “je ne sais quoi et ce presque rien” [quel non so che e quel quasi nulla] che spesso solo Claudio Abbado sa richiedere alle orchestre (finale della nona di Mahler, ma anche adagietto della quinta). All’inizio lo Scherzo sembra più chiaro e più lineare del movimento-tempesta precedente, ma dopo qualche minuto non si può più seguire alcun linea melodica, ogni nota viene letteralmente diluita, divisa, moltiplicata: la linea che si poteva riconoscere all’inizio diventa una fitta rete di relazioni complesse, di citazioni, di piccoli punti ironici, ogni strumeto dice la sua, poi si riprende la linea del Walzer per subito lasciarla senza mai stancarsi di disorientare l’uditore . In un contesto così, alla tensione e all’impegno dell’orchestra risponde quella dello spettatore paradossalmente costretto dalla limpidezza e delle chiarezza cristallina dell’orchestra a concentrarsi su tutte le note– si sente assolutamente tutto- e dunque a perdersi nella foresta fitta della sonorità mahleriana.

L’adagietto tanto conosciuto in mezzo a questa tempesta sonora è un momento completamente sospeso, Apollo entra nel reame di Dioniso: non a caso Abbado ha fatto inserire nei programmi l’inizio della partitura personale di Mengelberg, che spiega che il pezzo è un atto d’amore di Mahler verso Alma, e non ha un carattere malinconico, al contrario di quello che indicherebbe la vicinanza tonale con il Lied Ich bin der Welt abhanden gekommen (Rückert Lieder) [mi sono ritirato dal mondo], bensì un carattere completamente lirico. L’importanza centrale dell’arpa, lo strumento apollineo tipico, messa in mezzo ai contrabbassi, viole, violoncelli (l’adagietto, si sa, è scritto solo per arpa e archi), diventa anche geograficamente centrale e dominante: non a caso Abbado incita tutti a seguirne i movimenti, i crescendi, le ondulazioni.

Non a caso il ritorno di Dioniso comincia da un timido appello del corno: non si sa se à la fine dell’adagietto o l’inizio del rondò finale, perché il raccoglimento e il rondò ottimista, positivo, vanno di pari passo. Il rondò finale, che riprendea volte l’adagietto in modo più leggero, a tocchi danzanti, è veramente il momento dove tutto si risolve: momento di celebrazione della natura, dell’arte, dell’amore, momento di leggerezza che ricorda in modo forte colori, strumenti, ritmi, “Die Meistersinger von Nürnberg” [I Maestri cantori di Norimberga], e dunque siamo invitati ad una sorta di “Festwiese” esplosiva, gioiosa, sorridente (basta vedere il direttore…).
I momenti magici sarebbero da citare tutti: l’apertura impressionante della sinfonia, dove la fanfara iniziale si riduce poi dopo un po’ al flauto (Jacques Zoon, che fa dimenticare Pahud), , i pizzicati (la viola come sospesa!), il finale del secondo movimento e il silenzio di stupefazione che lo ha seguito! Il finale dell’adagietto dove il decrescendo lento porta a poco a poco fino al silenzio vissuto come musica…..
Questi momenti unici nella vita di un melomane non sarebbero possibili senza gli artisti d’eccezione che compongono l’orchestra, forse con il primato dei fiati: legni, ottoni esigono artisti di primo ordine per potere affrontare la partitura: Stephan Dohr, corno dei Berliner Philharmoniker, e strumento solista dello Scherzo è stato ineccepibile durante i due concerti (e magico durante il secondo),come Reinhold Friedrich la tromba, alla bravura incredibile, oltre che la simpatia, Albrecht Mayer (Oboe) e Sabine Maier (clarinetto) perfetti come sempre . Ma tutti sarebbero da citare (Marie-Pierre Langlamet all’Arpa, tutti i contrabbassi – quasi tutti prime parti delle più grandi orchestre del mondo germanico guidati da Alois Posch (Wiener Philharmoniker)- e i violoncelli rotondi, caldi, pregnanti, condotti da Natalia Gutman e Frank Bartolomey (Wiener Philharmoniker) e Raymond Curfs alle percussioni.

Artefice di questa magia, Claudio Abbado irradia l’orchestra, ogni movimento della mano, ogni espressione del viso, ogni gesto sarebbero da seguire: guardandolo, tutto ci sembra semplice…evidente.. liscio. La Guida, nel più nobile senso della parola.

L’anno scorso, avevo scelto il silenzio, davanti al miracolo della seconda. Davanti a quello della quinta, ho scelto di esplodere, cercando di restituire quello che mi è sembrato centrale nell’esecuzione alla quale abbiamo assistito, cercando di comunicare l’entusiasmo vissuto nel pubblico e in orchestra, cercando di far capire che abbiamo assistito all’unione mistica di Apollo e Dioniso.



















































































































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