LA CRONACA
 DEL WANDERER
N°79


Foto Marco Caselli

Lucerne Festival 2004

Lucerna un anno dopo
Ermanno Gloria 


Il secondo concerto 2004 della Lucerne Festival Orchestra

Auditorio del KKL

13 agosto

Richard Strauss
Vier letzte Lieder
Renée Fleming, Soprano

Richard Wagner
Tristan und Isolde
Atto II
John Treleaven, Violeta Urmana, Mihoko Fujimura, René Pape ...

Lucerne Festival Orchestra
CLAUDIO ABBADO

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Lucerna 2004













































































































































































































































































































Lucerna un anno dopo.

Lucerna: quale luce che sul lago riverbera sotto la poderosa pensilina aggettante del nero edificio del “Concert Hall of the Culture”; luce che illumina più sopra le esili colonne che riflettendo verticalmente sotto l’ampia volta danno l’illusione che non vi sia alcun contatto di sostegno: musica silenziosa dell’architettura.

All’interno la sala riverbera delle architetture sonore e silenziose dell’Orchestra del Festival, composta dai solisti più famosi e dagli elementi della Mahler Chamber Orchestra, voluti da Claudio Abbado.
Gli amici abbadiani hanno già ampiamente raccontato numerosi avvenimenti musicali di questo importante Festival e l’enorme entusiasmo provato mi spinge a partecipare al coro per riparlare di un avvenimento che mi ha maggiormente coinvolto: Il Concerto n.4, per pianoforte e orchestra di L.V.Beethoven, con Maurizio Pollini solista, e la Sinfonia n.5 di Mahler, sotto la direzione di Claudio Abbado.
Impossibile elencare i prodigi ascoltati nei tre tempi del concerto di Beethoven: alle prove, veniva evidenziata la puntigliosa ed estenuante ricerca come se Solista e Direttore scoprissero per la prima volta la partitura, dove venivano annotati da Pollini, con piccolo spartito alla mano, particolari inediti. E in questa occasione ho potuto apprezzare l’umiltà reciproca scaturita da un’amicizia confortata dalla musica: penso che l’orchestra fosse contagiata da questo sentimento e nell’esecuzione pubblica si verificava quel concetto tanto caro ad Abbado del ”far musica insieme” che, provocando il superamento di tecnica ed espressione, restituiva all’uditorio quella miracolosa verità dell’interpretazione.

Nell’intervallo, era ancora giorno, e raggiungendo la terrazza dell’auditorium, salendo le scale, avvolti nel buio, si poteva scorgere dalle aperture rettangolari, in ordine asimmetrico, gli squarci abbacinanti del panorama della città, che poi sopra, all’aperto, si rivelava a 180°, maggiormente evidenziato dalla scura limitazione della copertura.

Mahler non pone nessun programma nella sua musica, ma la direzione di Abbado, (alla prova generale lo avevo di fronte) mi stimolava fortemente la fantasia e quella sua chiarezza esecutiva impressa all’orchestra mi dava letteralmente la visione dell’architettura delle complesse riflessioni del compositore sulla condizione umana, anche remote, forse acquisite ancor prima della nascita.
Questa “strana“sinfonia incomincia dall’idea dell’imminente fine della vita annunciata dalla tromba (precisa e incisiva quella di Reinhold Friedrich) successivamente ribadita dalla fatale marcia funebre; ciò che segue in continui rimandi fra solisti e sezioni orchestrali in mille variazioni, esprime tutta l’incomprensione umana su questo ineluttabile fatto: il tempo termina, dopo qualche indugio, con un terribile accordo pizzicato dei contrabbassi che intima la suprema condizione
Ancora non c’è rassegnazione e nel secondo tempo si riafferma con più forza la non accettazione e fra implorazioni disperate, segnate dagli acuti accordi degli archi che si espandono in ogni direzione, come per trovare uno sbocco, si giunge ad una fanfara che vagamente, quale ultimo addio anche all’amata Boemia, mi porta, per una associazione di idee, al poema sinfonico di Smetana “La Moldava” quando il fiume entra trionfalmente in Praga. E’ inutile ogni difesa: lo indica il catastrofico accordo all’unisono del gong e dei timpani e dopo laconici lamenti, apostrofati dai fiati e dagli archi, tre misteriosi colpi in pianissimo del timpano, concludono il tempo, quale suggello inappellabile del destino.
E’ tempo ormai di ricordi e nel terzo tempo la memoria rivive i momenti dell’infanzia: i giochi, le liete ricorrenze, i canti sotto l’albero, l’adolescenza, le prime esperienze della vita segnate dal valzer, le gioie dell’amore con le complicazioni anche dolorose, ma superate dalla spensierata giovinezza. Ma ecco: sembra di riconoscere, nella leggerezza dei pizzicati degli archi, che si rimandano il gioco (straordinari il violino di Kolja Blacher e la viola di Wolfram Christ), l’età matura: pensieri contrassegnati dagli interventi rassicuranti ma anche portatori di presentimenti, del corno (eccezionale il corno di Stephan Dohr) che si compiace di prolungare, in un progressivo spegnersi, i ricordi con un soffio di malinconia che poi è il profumo della vita.
Chi non conosce ormai l’adagietto di questa sinfonia? Abbado anche in questo abusato brano ha saputo reinventare una semplicità (apparente) quasi perduta. Mi ha suggerito la semplicità di un bambino che addormentandosi sul seno materno avverte inconsciamente i suoni uditi nella rassicurante e onirica dimensione amniotica.

Nei Lieder Eines Fahrenden Gesellen, il secondo “Ging heut morgen ueber Feld“ (Stamane me ne andavo per i campi)

Mahler prova della gioia:

“Nun fangt auch mein Glueck wohl an?! (Dunque incomincia ora anche la mia felicità?!)

ma poi ricade nel peggior sconforto:

“Nein! Nein! Das ich mein, mir nimmer bluehen kann!”(No! No! Quello ch’io intendo, mai più per me potrà fiorire!).


Nell’ultimo tempo della quinta sinfonia, per la prima volta e forse mai più, Mahler troverà questa gioia di vivere, che potrebbe essere la conseguenza del concetto di una rinascita e Abbado, forse anche dalla sua recente esperienza, ha saputo maggiormente infondere questo impulso vitale.
Subito dopo l’ultimo accordo dell’adagietto, il corno emetteva un timido incuriosito “vagito” per poi rinfrancarsi in un allegro motivo spronato dal disegno incalzante degli archi che invitavano a crescere, a crescere sempre di più per conoscere e apprezzare le bellezze della vita, della natura, a reimparare le esperienze della maturità. Fra tutta questa frenesia per due volte l’orchestra si fermava per contemplazioni, scevre da ogni presentimento, ormai consolidate da una caparbia ingenuità propria di un bambino, qualità che in una persona adulta non dovrebbe mai venir meno.
Ma poi il gioco riprendeva e in orchestra le variazioni si susseguivano rapidamente con i virtuosismi più imprevedibili e si evidenziava negli esecutori l’abilità, unita ad una grande partecipazione, propria del significato di “suonare con il corpo” : l’orchestra sembrava un campo di spighe ondeggianti spinte da ventate musicali.
Nelle ultime battute i flauti e gli altri legni emettevano quell’allegro motivo a spirale, incentivante ad una euforica marcia, che dura un istante come dura la gioia, incalzato dal trillo del triangolo a ricordare che lassù esistono le stelle e a raggiungerle basta seguire le vorticose fughe degli archi fino a raggiungere l’accordo finale, secco, iperbolico, quale catapulta verso silenzi cosmici.
In Mahler la sofferenza e la gioia sono sentimenti sempre esasperati, per cui alla fine udivo sì i giusti applausi, ma non potevo unirmi all’esaltazione collettiva, l’emozione me lo impediva: avrei voluto essere in quei silenzi.

Ermanno Gloria

























































































































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