Salzburg 2002

Anteprime/Prime impressioni (7): Il Gazzettino

Il Gazzettino, 25 marzo 2002

SALISBURGO. Alla guida della Filarmonica di Berlino, il direttore offre una versione inedita dell'opera wagneriana
Un grande Abbado per "Parsifal"
Luci e ombre sulla regia di Peter Stein. Violeta Urmana è una Kundry di rara eleganza

Si esce dal Grosses Festspielhaus (La sala grande del Festival di Salisburgo) con l'impressione di aver udito qualcosa di inedito e di definitivo. Claudio Abbado, con la Filarmonica di Berlino, offre del "Parsifal" una fondamentale interpretazione che poggia prevalentemente su due elementi: la trasparenza sinfonica da un lato; la violenza distruttiva dall'altro. Di conseguenza il protagonista non è Parsifal o Kundry (il direttore è poco interessato alle visioni erotiche) ma Gurnemanz, il Narratore, che incarna un aspetto totalmente nuovo, e rivelatore della drammaturgia wagneriana, in cui la narrazione non è vissuta in chiave diretta, ma descritta. D'altronde nel "Parsifal" non c'è una drammaturgia d'azione, ma una drammaturgia contemplativa, grazie alla quale Gurnemanz, il vegliardo Cavaliere del Graal, che invoca la redenzione, esplora tutte le possibilità di un declamato onnipotente.Abbado sottolinea, attraverso questo personaggio, le prefigurazioni del "Pelléas et Melisande" di Debussy. Scelta peraltro già perseguita negli anni Sessanta a Bayreuth da Pierre Boulez con la regia di Wieland Wagner; ma la dizione dell'autorevole maestro francese era, almeno allora, molto razionalizzata, mentre Abbado predilige la sensitività del suono (fa pensare un po' alla melodizzazione del timbro di Ansermet).

Alla sobrietà quasi ascetica con cui è sentita la grandiosa figura di Gurnemanz e la natura edenica dell'Incantesimo del Venerdì Santo fa da contrappeso la dilaniata drammaticità dell'Intermezzo del terz'atto. Torna a mente la parola di Elias Canetti, l'armonia della "distruzione". Nel trapasso dallo splendore dell'Incantesimo alla transitoria oscurità del Graal, Abbado pare alludere, con rabbrividente angoscia, alle marce esasperate e funerarie di Gustav Mahler. Per potenziare gli effetti sinfonici il direttore si è fatto costruire a Berlino enormi campane che ingigantiscono il suono (con effetti quasi elettronici) e che assumono una teatrale evidenza, poste come sono a sinistra del palcoscenico. Si ripensa a Nono che, negli ultimi anni, era ossessionato dall'idea del "Parsifal", tanto da ricorrere in Germania a campane dotate di particolari risorse foniche per il suo estremo pezzo sinfonico-corale, "Caminantes...Ajacucho". Non è da escludere che Abbado, appassionato sostenitore del compositore veneziano abbia pensato proprio ai "Caminantes" per questa enfatizzazione sonora: la terribilità fonica dell'Intermezzo sembrava travalicare lo stesso pensiero ottocentesco e, attraverso Mahler, lambire l'esperienza contemporanea. Impressionante la varietà dei registri orchestrali: si trascorre da un sinfonismo spoglio, ai confini del silenzio, ad un tagliente parossismo realizzato con precisione, lucentezza e pienezza dalla Filarmonica di Berlino.

Su una prospettiva diversa si muove la regia di Peter Stein, che non ha toccato gli esiti del "Wozzeck" salisburghese di tre anni fa, sempre con Abbado. Stein rispetta sempre le didascalie originali (Wagner è stato anche il primo regista delle sue opere), ma evita le convenzioni della tradizione. Tuttavia il limite dello spettacolo è nella oscillazione tra simbolismo e naturalismo, e nella difficoltà di trovare un momento di equilibrio e di mediazione tra questi due aspetti, anche sotto il profilo scenografico e costumistico. Tuttavia i quadri d'apertura di ogni singolo atto sono a loro modo significativi. La stilizzata foresta d'esordio, che lambisce il lago, affascina per il simbolismo notturno, filtrata attraverso l'esperienza pittorica del primo Munch. Purtroppo il successivo quadro del tempio è figurativamente debole: la struttura scenica a semicerchio, ideata da Gianni Dessì, sacrifica, con un geometrismo Anni Trenta la liturgia sacrale, mentre la regia investe, con un naturalismo ad effetto, la figura di Amfortas, ignorando che la ferita del re peccatore, in attesa del gesto liberatorio di Parsifal, il "puro folle", è una ferita non soltanto fisica, ma anche mentale. I costumi di Anna Maria Heinreich sono da opera romantica italiana, al pari dei fanciulli che distribuiscono incensi molto esornativi.

Ad apertura del second'atto un'altra intuizione di Stein: il castello di Klingsor diviene viene una scalinata a ridosso di una parete nera, che si staglia sull'azzurro del cielo. Una antenna parabolica, al proscenio, è la felice traduzione tecnologica di un delirio cosmico. Il mago perverso, che si è autoevirato, è acutamente disegnato come un Mercante di Venezia (allusione all'antisemitismo patologico di Wagner). Ma il giardino della seduzione presenta un taglio melodrammatico, quasi da "Don Carlo": forse in questo periodo Stein pensa più a Verdi che a Wagner.

Ritorna la maestria di un maestro della regia nel primo quadro del terz'atto, con un iridescente paesaggio d'alba e l'indimenticabile lavacro dei piedi di Parsifal da parte di Kundry (la Maddalena voluta da Wagner). Ma nell'epilogo prevale ancora l'evidenza naturalistica sul passo rituale: Amfortas viene caratterizzato con eccessiva concitazione. Si moltiplicano i simboli paraliturgici con enormi croci al neon che sforano, alla fine, un sipario rosso: transitori effetti iperrealistici e postmoderni. Insomma un allestimento discontinuo e solo parzialmente riuscito: da Peter Stein, uno dei maggiori registi contemporanei, forse ci si poteva attendere una maggiore comprensione del pensiero di Wagner.

Nella distribuzione vocale spicca il basso Hans Tschammer che condivide l'idea interpretativa di Abbado, conferendo alla figura di Gurnemanz una straordinaria riflessione meditativa. Violeta Urmana è una Kundry di rara eleganza e musicalità anche se scenicamente non sono resi i "trapassi catalettici" del personaggio. Thomas Moser è un Parsifal opportunamente ricondotto ad una dimensione lirica, ma è troppo statico nella recitazione. Il Klingsor di Erike Wilm Schulte ha un bel rilievo teatrale; Markus Hollop, Titurel, canta con espressiva cupezza. Purtroppo il basso-baritono Albert Dohmen enfatizza, in senso veristico, il personaggio doloroso di Amfortas. Felicemente scelti tutti gli altri ruoli: dai due Cavalieri del Graal, alla voce Dal cielo, alle sei fanciulle-fiori. Impeccabili le voci bianche dei Tolzer Knabenchor, le voci femminili dei cori Schoenberg di Vienna e quelle maschili dei cori delle filarmoniche di Praga.

Com'era prevedibile tutti i fedelissimi abbadiani d'Europa si sono incontrati al "Grosses Festspielhaus" per celebrare il maestro e il suo congedo dal celeberrimo Festival Pasquale. Le accoglienze trionfali per il direttore contrastavano con i dissensi per la regia di Peter Stein. Chi erano i contestatori? I nostalgici del misticismo di Bayreuth o i covertiti da Gerard Mortier, l'ex responsabile del Festival Estivo di Salisburgo, alle sirene dell'avanguardia?

Mario Messinis




Interpreti Dohmen, Hollop, Moser, Schulte, Urmana, Supper, Stein, Buffle, Zehnder, Hoppe, Süss, Zhidkova
Regia
Peter Stein
Scene
Gianni Dessi
Costumi
Anne Marie Heinreich
Orchestra
Berliner Philharmoniker
Direttore
Claudio Abbado
Coro
Schwedischer Rundfunkchor, Eric Ericson Kammerchor