LA CRONACA
 DEL WANDERER
N°90



Inverno 2005

Scala, Gennaio 2005
Attilia Giuliani e Angelo Foletto

In Omaggio a Georges Prêtre, oltre alla cronaca di Attilia Giuliani, proponiamo anche il testo di Angelo Foletto del programma di sala

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Inverno 2005














































































































































































































































































































Serata indimenticabile

Serata indimenticabile alla Scala stasera, lunedì 10 gennaio 2005: Prêtre sul podio, festeggiato in modo caloroso, affettuoso e commosso dal pubblico che gremiva la sala del Piermarini. Una serata di ricordi, con un programma che riprendeva una serie di interpretazioni del Maestro francese nel teatro milanese, dove esordì nel 1966, quasi 40 anni fa! Arrivato al traguardo degli ottanta, Prêtre si è presentato al pubblico milanese in forma smagliante, salutato da lunghissimi applausi e da un "Buon compleanno Maestro" lanciato dall'ultimo piano delle gallerie, con l'inconfondibile voce della Luisa Mandelli, decana dei loggionisti scaligeri, che non vedevano l'ora di avere una serata così (più di uno, uscendo si è chiesto cosa succederebbe se un altro Maestro, da troppo tempo assente, salisse su quel podio; certo se dobbiamo aspettare i suoi ottant'anni, abbiamo davanti 8 anni buoni per prepararci, ma l'attesa sarebbe ben premiata!).

Il concerto, iniziato con una suite dalla Carmen di Bizet, si è concluso con un trascinante Bolero di Ravel, cavallo di battaglia del direttore francese, che ha esaltato l'uditorio, che ha richiesto a gran voce almeno un bis: ne abbiamo avuti due alla fine, prima la barcarola dai Racconti di Hoffmann e poi l'elettrizzante can can dall' Orfeo all'inferno di Offenbach ritmato con le mani dal pubblico, in un crescendo di entusiasmo come poche volte succede! Peccato solo che nessuno del prestigioso Teatro milanese e tanto meno nessuno della Filarmonica della Scala abbia pensato di fare un omaggio floreale al Maestro francese, anche in considerazione del suo recente compleanno; ma Prêtre è sicuramente uscito dal teatro avvolto dall'affettuosa accoglienza che il pubblico gli ha tributato, pensando probabilmente che si è pienamente avverato quello che Maria Callas gli aveva detto un tempo: "Tu potrai essere felice solo alla Scala".

Teatro alla Scala - Orchestra Filarmonica -
Lunedì 10 gennaio 2005
Direttore: Georges Prêtre

G. BIZET
“Carmen” – Ouverture, Preludio II°atto, Danses Bohémiennes

G. PUCCINI
“Manon Lescaut” - Intermezzo

R. WAGNER
“Walkyria”- Cavalcata

SAINT SAENS
“Sansone e Dalila”- Baccanale

H. BERLIOZ
“La dannazione di Faust” –

Marcia ungherese

R. STRAUSS
Der Rosenkavalier - Suite

M. RAVEL
Bolero


Riportiamo anche, dal programma di sala, il bel testo di Angelo Foletto (su autorizzazione dell'autore), pubblicato anche sul sito della Filarmonica (http://www.filarmonica.it/ita/)

Una festa e un atto di ringraziamento.

di Angelo Foletto

Sette autori, sette partiture.

Sette musiche che non hanno bisogno di presentazione né di notizie aggiunte.

Eppure alcune ne daremo, correndo il rischio di sembrare ovvi o stolti, anche se prima che dei singoli brani ci pare necessario parlare del senso complessivo dell’impaginato: un elenco tutt’altro che scontato, nato tra mille ripensamenti (ne sa qualcosa l’archivista della Filarmonica che ha rimesso insieme più volte la cartella con le parti d’orchestra, speriamo siano quelle previste fino a pochi giorni fa, che vediamo sui leggii in attesa di essere accese dal gesto del direttore) perché destinato a rappresentare un’occasione unica.

Una festa e un atto di ringraziamento.

Vicendevoli. Da parte di un teatro e di un’orchestra che con Georges Prêtre ha contratto profondi debiti umani e artistici, ma anche da parte d’un musicista che tra queste mura ha lavorato assiduamente – pare proprio un segno del destino che il primo appuntamento della Filarmonica nella Scala ritrovata sia toccato proprio a lui – offrendo serate memorabili e una generosa continuità di impegno che hanno segnato soprattutto le stagioni degli anni settanta. Più che per un semplice (rutilante) concerto, questa sera siamo convocati al racconto d’una storia d’amore. Anzi due: amore per una letteratura (quella “francese”), amore per un teatro e le produzioni in cui è stato impegnato. Protagonista il direttore d’orchestra francese che dedica alla Filarmonica della Scala (orchestra che lo volle fin dal primo anno di vita, 1982, e lo invitò regolarmente fino al 1995) un programma d’altri tempi, fatto di variegate tessere d’autore: all’insegna del fascino trascinante e spudorato. Tutto è virtuosistico e multicolore. Così avvincente, già sulla carta, che si comincia a gioire prima che l’esecuzione inizi. La brillantezza dell’impaginato non è tutto ma dichiara molto: evoca l’attitudine e la dedizione dell’interprete per un repertorio, richiama alla memoria le letture più intense (e di cui siamo più obbligati) regalate da Prêtre nella sua lunga militanza scaligera, e ci fa riflettere criticamente sul ruolo che il musicista ha avuto nella storia dell’interpretazione del dopoguerra e in quella della nostra crescita culturale. Poi, non manca l’accenno ironico, regalato con l’aria sorniona e mefistofelica (ma dolce, sotto sotto) del nostro amato direttore che inserisce tra i preferiti la Rosenkavalier suite – già eseguito con la Filarmonica il 30 marzo 1987, come premessa non casuale a La Valse di Ravel (l’apoteosi del valzer) – quasi a rinfacciare una certa sofferenza professionale nell’essere stato ineluttabilmente legato, anzi confinato, quasi solo alla letteratura francese. Da “specialista”, come Prêtre detesta essere considerato, anche se non può dissimulare la spontaneità e l’originalità con cui ha affronta il mondo che parla la sua lingua. Se fosse dipeso da lui, avrebbe diretto Richard Strauss, Verdi o Donizetti; autori che in Italia ha affrontato solo in lontane stagioni radiofoniche, su sollecitazione di Francesco Siciliani, artefice degli esordi italiani. “La realtà”, disse qualche anno fa con i suoi modi squisitamente garbati ma taglienti, “è che voi italiani non siete contenti se non appiccicate un’etichetta a ogni artista, e alla Scala sono sempre stati convinti che solo i direttori di madrelingua possano toccare certi autori: a me è andata bene con Puccini [di cui ha diretto quattro titoli], non altrettanto con Verdi. Ma non voglio sembrare ingrato né presuntuoso: sono lieto di essere considerato un interprete di fiducia nel repertorio francese e di averlo eseguito dovunque. Anzi ne sono fiero: non tanto per la mia nazionalità ma perché amo profondamente questa musica”. Quando parla, un sorriso felino gli illumina gli occhi. Anche in incontri professionali Prêtre è attento, quasi immobile e sornione; alle domande. Al momento delle risposte si anima. Parla con foga, mescola con malizia francese e italiano, disegna concetti con le dita, si accalora e viene col viso più vicino all’interlocutore, elude le domande se sono intime (cioè su scelte squisitamente musicali e interpretative) ma non lesina dati relativi alla sfera professionale o al suo percorso di musicista attivo: pianista per vocazione, trombettista per diploma, compositore per prima aspirazione musicale (“amo le voci, volevo scrivere opere”), direttore d’orchestra dal 1946: per ispirazione quasi magica e inattesa. Prêtre usa spesso il verbo “amare”, poche volte “dirigere”. Non è un caso. Per questo maestro (la qualifica comune lo sconforta: “non mi piace l'espressione “direttore d'orchestra”, tanto meno la parola francese chef che sa tanto di carriera militare né quella inglese conductor, più adatta a un capotreno che a un musicista”) il rapporto con gli strumentisti è frutto d’un processo di assimilazione reciproca non d’una correlazione basata su ordini o sudditanze: “l'orchestra dovrebbe essere una grande famiglia, con un suono unico di cui noi siamo responsabili; dirigere significa suonare la partitura, essere il responsabile del suono e dello spirito musicale di uno strumento gigantesco”. In ciò Prêtre è un vero musicista tra i musicisti, compagno morale di altri grandi interpreti come Carlo Maria Giulini o Rafael Kubelik che hanno sempre rivendicato con orgoglio la non-diversità del direttore d’orchestra e il sospetto nei confronti di un suo presunto ruolo gerarchico. Certo, anche per lui, è importante sapere, cioè avere il dono: “il direttore deve essere in grado di creare l'atmosfera, un suono unico e tutto suo dalle orchestre; e non si può insegnare come, perché il solo docente di un direttore è l’orchestra”. Ma poi “arrivati sul podio, si rimane soli”. E può non essere facile trovare subito “quel” suono, soprattutto se l’incantesimo è fondato – e con Prêtre deve essere così, altrimenti sono musi lunghi e furiose scenate (almeno in gioventù) – sull’immediatezza emotiva. Ha un bel sostenere, il maestro, che la sua seconda vocazione era quella del medico (“anzi il chirurgo; mi ha sempre affascinato l'idea del tempismo, della precisione e delle qualità di leader necessari per esserlo”): fin dalla prima prova, le necessità ’chirurgiche’ sono già state assolte in fase di studio, e tutto il lavoro è concentrato sulla ricerca intuitiva e profonda di un suono e di un’articolazione musicale che germoglia come prolungamento fisico e spirituale dell’inimitabile gestualità. Non è facile, seppure esaltante, per l’orchestra stabilire un contatto diretto con le mani, col viso, con le movenze di un corpo che chiede quasi con ansia musica, colori, flessuosità e ‘profumi’. Assistere alla nascita di un’esecuzione di Prêtre è un’esperienza affascinante ma può essere traumatica, perché il suo modo di procedere e di costruire l’architettura musicale e poetica non è rituale. Talvolta spiega e motiva le scelte. Più spesso si affida al segno arcano e non sempre esplicito d’una sensazione che a seguire il tracciato delle sue mani pare perspicua ma che elude le regole del galateo direttoriale: ora ammorbidendo il tracciato ritmico fino a renderlo un esercizio di scioltezza quasi estemporanea – cui potrebbe nuocere la provvidenziale segnaletica direttoriale: infatti Prêtre semplicemente non ‘batte’ il tempo, limitandosi a incantatorie figurazioni chironomiche a occhi chiusi e (af)fidandosi all’intuito dei professori d’orchestra - ora evocando con sguardi ispirati una linea interpretativa che lui possiede e che gli esecutori (e, a seguire, gli spettatori) devono riconoscere. Il rischio, a volte, è scambiare l’esuberanza dionisiaca per volontà effettistica, il carisma speciale per compiacimento direttoriale: cose che, forse, potevano valere per il Prêtre spumeggiante dei primi anni scaligeri. Oggi quell’energia sembra metabolizzata in pensiero: tutto in lui, tranne il suono inconfondibile, è rastremato e più sapiente. Per questo, il programma di oggi ha anche il significato di un viaggio nella maturazione umana e poetica di un interprete: una ricognizione istruttiva nella dimensione certo misteriosa, e per certi versi magica, ma non indecifrabile che è la professione di direttore d’orchestra, o meglio di “interprete d’orchestra” come parafrasa con finezza Prêtre. Pur ricordando bene le straordinarie realizzazioni operistiche richiamate alla memoria da questa locandina dall’evidente impianto storico-affettivo, dobbiamo fare lo sforzo di non rimuoverle dall’album dei ricordi per improbabili e sterili confronti a distanza: l’allineamento odierno in gustosa configurazione concertistica pretende un’attenzione nuova e ingenua, disposta a farsi sorprendere e a capire com’è il musicista di oggi. Ché una cosa è ascoltare come avvio di serata ‘sinfonica’ alcuni celebri numeri di Carmen (vagliati con astuzia: non tutti i Preludi, ma solo i momenti musicali più orientati dalla personalità devastante e inquieta della protagonista che nacque all’Opéra Comique il 3 marzo 1875), un’altra sarebbe ritrovarli nell’incendiaria esposizione di Prêtre col palcoscenico davanti, quando all’esplosione d’avvio dei piatti di solito il direttore faceva seguire una repentina immobilizzazione delle mani bilanciata dal semplice dondolamento del busto, per poi ripigliare il ritmo alla seconda strofa musicale. Allo stesso modo, facciamo finta di non conoscere la vicenda di Manon Lescaut di Puccini (Torino, Teatro Regio, 1 febbraio 1893) e la strategica collocazione teatrale dell’Intermezzo tra secondo e terzo atto: una sorta di colonna sonora per scene (da immaginare) relative a “Prigionia” e “Viaggio all’Havre” come spiega la partitura, ma suggestionate dalla citazione da Prévost stampata sul libretto: Des Grieux “... Gli è che io l’amo! - La mia passione é così forte che io mi sento la più sfortunata creatura che vive. - Quello che non ho io tentato a Parigi per ottenere la sua libertà?!... Ho implorato i potenti!... Ho picchiato e supplicato tutte le porte!... Persino alla violenza ho ricorso!... Tutto fu inutile. - Una sola via mi rimaneva: seguirla! Ed io la seguo! Dovunque ella vada!... Fosse pure in capo al mondo!...” L’Intermezzo ha una consistenza drammatica forte. Condensa i fatti non confluiti nel libretto e in pochi minuti, evocando la disperazione di Des Grieux, srotola il film della vita di Manon: dalla gioia e la passione (l’episodio lirico e diatonico, incalzato dalle progressioni e dagli arpeggi dell’arpa) alla disperazione, alla rovina definitiva e alla morte anticipata dall’andamento spettralmente marziale del tema cromatico intonato dagli archi nell’iniziale Lento espressivo. Le idee musicali sono intrecciate e ridisegnate a ogni apparizione dalla strumentazione sofisticata che elude in parte lo spunto musicale di partenza (il quartetto per archi Crisantemi, composto per la morte del duca Amedeo d’Aosta nel 1890) di cui comunque si nutrono. Non è facile, ma proviamo a dimenticare tutto ciò, ascoltando la tumultuosa musica dell’Intermezzo in ottica concertistica pura: come certamente lo eseguirà Prêtre. Accentuando il dato sinfonico autonomo, come fosse - semplicemente(!) - un brano di matura personalità e singolare concezione poematica, dove il senso architettonico e l’elaborazione armonico-strumentale si sposano al disinvolto svelamento delle ascendenze francesi e wagneriane (Manon Lescaut fu definita “il nostro Tristano” da Fedele d’Amico) che marcano l’opera, rivendicando al 35enne Puccini una spregiudicata vocazione internazionale. Il medesimo procedimento di astrazione, fedele specchio delle recenti decisioni professionali di Prêtre – oramai quasi del tutto indisponibile per il teatro musicale e orientato a un repertorio sinfonico in parte autoreferenziale, racchiuso in poche partiture – si potrebbe consigliare a proposito degli altri tre numeri operistici.

Con alcune premesse. La prima riguarda il diverso carattere dei brani.

I primi due sono autenticamente teatrali, anche se costituiscono pagine di collaudata autosufficienza concertistica: in particolare la popolarità della “Cavalcata delle valchirie”, prima ancora dell’ambigua gloria cinematografica conseguita con Apocalipse now, risale all’ottocento: fu lo stesso Wagner a autorizzarne l’esecuzione (nel 1862, al viennese Theater an der Wien; otto anni avanti il battesimo di Die Walküre che avvenne a Monaco di Baviera) e il pezzo non mancava mai nei programmi lirico-sinfonici in voga qualche decennio fa, anche perché al di là dell’ingenuo carattere pittorico si manifesta come un saggio di straordinario magistero orchestrale.

Né minore seguito esecutivo autonomo aveva il “Baccanale” da Samson et Dalila (battezzata, garante Franz Liszt, come Samson und Dalila al Teatro Granducale di Weimar il 2 dicembre 1877), altro indimenticabile appuntamento operistico pluricelebrato da Prêtre a Milano.

La pagina orchestrale tratta dal terzo atto (è la celebrazione orgiastica nel tempio di Dagon della vittoria sui Filistei, prima dell’entrata del cieco e, ancora per poco, inerme Sansone tra lo scherno generale), col suo colorismo sgargiante e sensuale è un riuscito documento dell’esotismo francese di fine ottocento fatto di smagliante veste strumentale, melodismo ampio e suadente, gusto effettistico, tavolozza armonica e timbrica audace. Mentre la “Marcia Ungherese” deriva da una partitura spesso ma solo arbitrariamente messa in scena.

Berlioz concepì (1829) poi rielaborò (1845) La Damnation de Faust (Parigi, Opéra-Comique, 6 dicembre 1846) mantenendo la formula “leggenda drammatica”, cioè come un’opera da concerto.

Così la propose Prêtre alla Scala nel luglio 1975, in una memorabile edizione (di Nicolai Gedda, José van Dam e Frederica von Stade le voci protagoniste) di cui pare ancora di sentire i colori cinerini, le pennellate quasi espressioniste per il precipitare infernale di Mefistofele o il fantasmagorico grottesco disegnato proprio con la spettrale e sulfurea “Marcia ungherese”.

Dischiusa dal leggendario richiamo valzeristico e selvaggio dei corni che apre l’opera (il tema di Octavian), la Rosenkavalier suite è l’ultima metamorfosi “ohne Worte” toccata alla meravigliosa partitura battezzata a Dresda il 26 gennaio 1911.

Lo stesso Strauss, che aveva collaborato o fiancheggiato diverse redazioni da concerto “da” Der Rosenkavalier, compose nel 1945 quella divenne l’estratto sinfonico definitivo e più eseguito (diretto per la prima volta da Hans Swarowski nel 1946): pensato per riguadagnare consensi dopo le accuse di collusione col nazismo. Nella Rosenkavalier suite scorrono con leggerezza davanti agli occhi personaggi e fotogrammi indimenticabili della “commedia per musica” creata da Hugo von Hofmannsthal su modello mozartiano.

Gli umori valzeristici che cifrano la musica trinata e popolaresca (come il dialetto usato dal poeta per il libretto ambientato nella Vienna di Maria Teresa) non scoloriscono la tinta complessiva soavemente malinconica e sensuale.

Il culmine lo raggiungono le citazioni dallo stellare duetto Sophie-Octavian (II atto), immerse in un’abbagliante fantasmagoria di maliziose chincaglierie timbriche.

Anche se l’ottantaduenne musicista non si negò il gesto teatrale scanzonato e sornione: l’ultima parola della Suite spetta all’irresistibile e scurrile valzerone del barone Ochs. Il numero finale del programma si ricollega, non solo idealmente, al primo brano.

Come altri connazionali Ravel subì il fascino dei materiali sonori iberici: sia originali sia filtrati dall’immaginazione di Bizet che con Carmen aveva dischiuso alla musica francese (e europea in genere) la strada del foklorismo à la manière spagnola, inventando in ispirata autonomia e sfrontato disinteresse per la verità etnografica un’originale tinta iberico-gitana che da allora incarnò (e idealizzò) il carattere degli abitanti e i panorami di quel fascinoso paese. Così la danza di origine basca innerva una delle partiture più ‘francesi’ del novecento, il Boléro (1928), che conclude e glorifica l’assiduità musicale - una vera e propria passione-ossessione d’autore - con l’esotismo spagnolo e il non meno importante amore per la danza.

Il Boléro fu composto per la ballerina e coreografa Ida Rubinstein che realizzò la prima versione scenica all’Opéra di Parigi, il 22 novembre 1928 (mentre la più celebre lettura coreografica moderna la creò Maurice Bejart nel 1961).

Partendo dai caratteri fisiologici dell’inquietante danza spagnola (il bolero è in tempo moderato su ritmo ternario) e variando gli altri attributi musicali, Ravel creò una partitura a orologeria fondata su un motivo melodico (esposto subito, pianissino, dal flauto: attribuito poi per diciotto volte ad altrettanti gruppi o solisti strumentali), su un lentissimo crescendo marcato dal ritmo di bolero scandito dal tamburo (impercettibile in avvio, il disegno dilaga per gradi a tutte le sezioni dell’orchestra) e sull’assenza di modulazioni.

Il Bolero riafferma con spasmodica ossessività la tonalità di Do maggiore fino a quando le voci strumentali saldate in isterico e spettacolare fortissimo, tracimano in un improvviso e sensazionale Mi maggiore. “Tu potrai essere felice soltanto alla Scala”, (pre)disse Maria Callas a Georges Prêtre. Auspicio fortunato.

Nel teatro che fu ai piedi della sua forse più cara amica nel mondo della musica (“una donna dolce e fragilissima, non capricciosa”), Prêtre che dal 14 agosto scorso è nell’età fausta e pregiata dell’ultraottantenne, oggi festeggia la continuazione di un sodalizio artistico di rara intensità e durata: quarant’anni, mese più mese meno. Impossibile che lui li dimentichi perché “con la Scala ho collaborato intensamente; c'era un’atmosfera meravigliosa, sembrava di essere in una famiglia”.

Qui iniziò a lavorare nel dicembre 1965, preparando l’andata in scena di una leggendaria produzione del Faust di Gound (Nicolai Gedda, Mirella Freni, Nicolai Ghiaurov nei ruoli principali, e la storica regia di Jean-Luis Barrault) che debuttò il 7 gennaio successivo.

Da allora e per decenni, tra opere - Carmen, Werther, Les Troyens, Roméo et Juliette (di Berlioz), Faust, Samson et Dalila, Pelléas et Mélisande (quella di quest’anno sarà la sua terza produzione), L'heure espagnole, L'enfant et les sortileges, Bohème, Madama Butterfly, Manon Lescaut, Turandot, Cavalleria rusticana, Pagliacci, Die Walküre , La Damnation de Faust e Martyre de Saint-Sébastien (questi due in stagione sinfonica) - e concerti, il nome di Prêtre è diventato uno dei più familiari al pubblico milanese, che l’ha amato con trasporto.

Affascinato dalla presenza direttoriale inconsueta poi sempre più persuaso della profondità e dell’ispirazione che si celava dietro quella figura direttoriale stregante e insolitamente estroversa che, per rimanere alla sola Italia con i complessi Rai e di Santa Cecilia aveva anche eseguito Rosenkavalier, Norma, quasi – non si andò oltre le prime prove – Kovancina, e molte partiture del repertorio sinfonico tedesco, tra cui Terza e Ottava di Mahler, oltre alla Messa di Requiem di Verdi.

E sono stati proprio i musicisti scaligeri, cui ha dedicato dedizione e sapienza, affetto e lavate di capo leggendarie, a volerlo ancora al culmine di una trionfale annata di festeggiamenti per l’ottantenne (“solo quattro volte vent’anni”, precisa) cittadino adottivo di Tolosa. Il crescendo di concerti-celebrazioni avviato un anno fa a Roma ha coinvolto tutte le “sue” orchestre.

Il giorno del compleanno era sul podio dei Wiener Symphoniker di cui dopo molti anni di rapporto privilegiato ma non burocratico (“non ho mai avuto un matrimonio con un’orchestra, solo fidanzamenti”) è direttore onorario a vita, “un bel riconoscimento: del resto con le orchestre non ci si lascia mai”.

Le foto di repertorio lo ritraggono accanto a Maria Callas o per le strade di Parigi a braccetto con l’amico fraterno Francis Poulenc (di cui ha tenuto a battesimo La voix humaine e il Gloria), oppure col giubbotto da pilota d'aereo o a cavallo tra i boschi (ama la natura e più volte ha paragonato le orchestre a “cavalli di razza, purosangue dal temperamento differente che devono essere domati e guidati al meglio dal fantino giusto”).

Nel semplice immaginario degli appassionati Prêtre è il musicista delle vertiginose ebbrezze, delle incontinenze di colore e di rubati, delle soluzioni espressive fulminanti –e mai replicate– delle trovate tecnico-direttoriali imprevedibili (“l'attacco può essere un respiro, un movimento della testa, un gesto della mano, un’intesa solo mentale, un pensiero collettivo senza segni esteriori”).

Il direttore che sapeva intingere l’apparizione di Werther-Kraus nel più trasognato romanticismo, aprire il sipario sul mondo giapponese di Cio-Cio San con violenza espressionistica presaga fin dal fugato d’avvio o dischiudere il forziere di sogni e colori pastello dell’Enfant et les sortileges, interpretazione e spettacolo che ancora ci tornano in mente con la nostalgia per momenti teatrali di rara felicità. Dietro la facciata esuberante e generosa, energica e miracolosamente sofisticata c’era la maschera del direttore che a fine recita era più che stanco, svuotato.

Dietro la bellezza estenuata, cercata con rabbiosa dolcezza e fatta librare senza calcoli, si avvertiva l’impressionante attitudine drammatica, il senso della tragedia dell’uomo e dei sentimenti.

Oggi che il gusto per le accensioni brucianti e l’estremistica deformabilità del fraseggio hanno ceduto a scelte di tempo flessuose ma calibrate, e sagomate su una cultura del suono antica (l’articolazione musicale è un pensiero dedotto dall’architettura timbrica e respiratoria delle musiche) ma meno esibita, delle sue esecuzioni si può cogliere il carattere posato e sofferto dell’interprete che non deve dimostrare più nulla di sé ma solo liberare l’anima delle musiche.

Così come la gestualità più essenziale ma meno criptica, e non più ‘fisica’, sancisce la svolta introspettiva che la drastica selezione di repertorio poteva far intuire.

Ma nella circostanza festosa di oggi, anche tutto ciò che può apparire eccentrico e vagamente straniante – opere e teatro senza scene né voci (ma ancora nitidi nel ricordo di spettatori), drammi e gesti allusi, vorticanti successioni di colori e ritmi - come la riflessione critica più assennata sullo spessore d’un professionista sul podio da quasi sessant’anni (a proposito: auguri!) deve restare solo una quinta teatrale rispetto al rinnovato spettacolo di un maestro dell’istinto e dello stregante carisma direttoriale che torna sul podio di una delle “sue” orchestre – forse anche per ripensare a un scorcio importante della propria vita artistica e professionale - e alla riverenza di gratitudine e d’affetto che noi gli dobbiamo.

Nella speranza che, com’ha già fatto in altri recenti programmi di compleanno, Georges Prêtre abbia voglia di regalarci anche qualche fuori programma: di Offenbach magari –la Barcarola da Les Contes d’Hoffmann o, perché no?, l’elettrizzante CanCan da Orphée aux enfers - uno dei pochi autori francesi che non ha mai diretto alla Scala. Finora, almeno.

Angelo Foletto





















































































































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