LA CRONACA
 DEL WANDERER
N°99

Andrea Silipo



Andrea Silipo ci ha mandato questo lungo diario sulla recente Zauberflöte, che - lo sappiamo ormai- fara il giro del mondo.


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Inverno 2005
















































































































































































































































































































1. Reggio Emilia, 22 aprile 2005, le sette di sera.

Le file del teatro Valli sono numerate dal fondo della platea al palcoscenico; così, con un biglietto della fila numero 18 ho un posto non in fondo alla sala, come temevo, ma proprio dietro al podio del Direttore di orchestra.
Aspettando che le luci si abbassino, mi guardo intorno, per vedere chi siamo lì: giovani, anziani, tedeschi, giapponesi, signore milanesi, Cofferati e la sua giovane compagna nel palco reale, qualche noto banchiere, qualche appariscente industrialotto, molte coppie d’età, qualche artista acconciato per essere riconosciuto come tale…
Tutti accomunati dall’emozione di star per assistere ad uno spettacolo che si preannuncia straordinario: Zauberflote diretto da Claudio Abbado - il primo della sua memorabile storia mozartiana - con la regia di Daniele Abbado: la prima volta insieme di padre e figlio.
E mi viene da chiedermi: cosa sarà lo Zauberflöte - questo Zauberflöte - per ciascuno di costoro, cosa c’è nella loro breve, o lunga, o molto lunga vita che si possa connettere con quanto vedranno e sentiranno di qui a fra poco; Quali associazioni di idee susciteranno la musica, le immagini, lo scorrere della storia ?

Per pochi di loro, immagino, sarà il primo Zauberflöte: chi si è industriato per esser qui lo ha certo voluto fortemente; e dunque, a meno che non sia stato trascinato qui solo dalla voglia di “esserci”, conoscerà l’opera, per averne già ascoltata un’edizione delle tantissime che in questi anni si sono sentite non solo nei teatri d’opera ma anche al cinema, in televisione, per non parlare delle incisioni e degli stralci di highlights, il refrain di Papageno financo come suoneria di telefonini... Eppure, penso che per pochissimi dei miei compagni di evento questa serata sarà, come per me, un condensato colmo di presente e passato, una sorpresa tanto più grande quanto più preceduta da memorie lunghe di momenti, motivi ed emozioni già tante volte attraversati e vissuti…
Poi, alla fine della lunga cavalcata che ci aspetta, tutti esploderanno nella celebrazione delle emozioni, grati a chi ha colmato le due ore trascorse di un profluvio di prorompenti ed attonite sensazioni.

Eppure, ognuno avrà assistito ad uno spettacolo diverso, fatto di ciò che l’avrà colpito o lasciato indifferente, dei “suoi” momenti di intensa partecipazione e di quelli di inevitabile abbandono, se non di vera distrazione…

In sala anche molti musicofili con lo spartito: appartengono ad un mondo che ho sempre invidiato ma da cui sono purtroppo rimasto escluso: leggere le note mentre le si ascoltano, o ascoltarle mentre le si leggono, è certo una dimensione superiore del partecipare alla musica e comprenderne i “sensi”. Io sono sempre rimasto un apprendista dilettante, capace al più di annodare empiricamente i ricordi di un’esecuzione dal vero con qualche brano ascoltato più volte a casa: per il resto, per me la musica resta circoscritta in uno spazio bidimensionale, in cui si incrociano disordinatamente la dimensione letteraria e quella del piacere estetico e sensitivo dell’ascolto: riuscendo ad identificare solo dopo molte frequentazioni dove finisce l’opera del compositore ed inizia quella dell’esecutore.

Ecco, le luci si abbassano, ed Abbado entra rapido e teso, con quel suo sorriso timido, che rivolge prima agli orchestrali e poi verso la sala, verso cui si volta con una smorfia di emozione ed un segnale di complicità diretto a quella parte di pubblico che è il “suo”pubblico, la consorteria celebrante degli Abbadiani che ogni volta riceve in dono l’emozione che si ripete nei teatri del mondo.


2. Ouverture

Abbado attacca, rapido, l’Ouverture: ecco i tre primi accordi, che preannunciano il regno di Sarastro e, subito seguiti da un allegro fugato che ci allontana il prima possibile da quell’annuncio dall’aria seria e funesta e ci sospinge verso la dimensione gioiosa della favola che si annuncia.
Ma lo scherzo si interrompe e, di nuovo, risuonano gli accordi solenni del rituale massonico. E da allora in poi l’ouverture è tutto un contrapporsi, quasi un farsi spazio di queste due diverse suggestioni. Se nella tradizione esecutiva – le versioni di Karajan, di Bohm - l’evidenza è tutta nel gran concerto dei fiati che creano l’atmosfera magica e solenne del rito massonico, con tutta l’inevitabile retorica che questa sottolineatura comporta, Abbado affida soprattutto ai legni il compito di introdurci alla fiaba, con un susseguirsi incalzante di frasi leggere e raffinate, un’impronta scherzosa e leggera che anticipa le atmosfere rossiniane. E’ un fraseggio ritmato, nel quale le sonorità della Malher Chamber Orchestra emergono e meravigliosamente si separano l’un dall’altra, con uno spettacolare “effetto stereo”.

Il mio primo “stereo”… Era il 1974, e, dopo mesi di ansiosa preparazione sulle prime riviste di Hi-Fi, finalmente avevo deciso i pezzi che avrebbero composto il mio complesso; ero andato da Consorti, a Viale delle Milizie, e, forte di una superficiale e pretenziosa conoscenza, chiesi di ascoltare quello che tutti descrivevano come un oggetto straordinario: l’Amplificatore M K 100, frutto di quell’ultima stagione di italian design e di tecnologia inventiva che a quel tempo avevano i prodotti italiani, pur sempre in minoranza rispetto ai prodotti della tecnologia tedesca (Schaub Lorenz, Braun), americana (Marantz, McIntosh) e, da poco, giapponese (Pioneer, Yamaha, Toshiba). Giradischi Thorens e casse AR 3A, quelle dei musicofili intenditori.

La mia vita di musicofilo era iniziata tanto anni prima con un “grammofono” GRUNDIG entrato in casa quando avevo poco più di 15 anni; poi un complesso integrato, mi sembra SABA, il più importante dono ricevuto nel mio matrimonio “militante” avvenuto nel 1968.

Ma l’iniziazione vera e propria cominciò con il mio nuovo complesso stereo del ’74 e la collezione di 33 giri ereditata da mio padre e poi via via arricchita: progressivamente, scoprivo un’opera dietro l’altra, durante lunghe, solitarie serate in casa, mentre mia moglie frequentava i “piccoli gruppi” femministi ed io restavo a vegliare il sonno dei miei due figli, il più piccolo dei quali aveva pochi mesi….
Sdraiato sulla moquette del soppalco, seguendo la musica sul libretto, nei momenti più avvincenti alzandomi a “dirigere” ciò che durante il giorno successivo riascoltavo nella mente...

Qualche sera facevo far tardi anche a Luca, che ormai aveva 5 anni: il primo brano che lo coinvolse fu la cavatina del IV Atto del Trovatore :

“Sconto col sangue mio,
l’amor che posi in te
Non ti scordar di me,
Leonora addio !”.

Poi imparammo insieme a cantare tutto il primo atto di Traviata, “gioir” escluso, naturalmente…
In effetti, era soprattutto Verdi ad entusiasmarmi. Rivelando ancora una volta l’approccio “letterario” del mio interesse per la musica, mi accompagnò, nella scoperta del percorso verdiano, uno straordinario libro di Baldini, “Abitare la Battaglia”, biografia scritta da un critico “dilettante” che, a furia di inseguire un’edizione dopo l’altra girando per tutti i teatri del mondo, era riuscito a penetrare nei segreti dei testi verdiani, le assonanze, l’intreccio complesso fra i contenuti dei libretti e le strutture musicali.
E’ stato il libro di Baldini, ad esempio, che mi ha fatto notare la particolarità della struttura delle Ouvertures liriche, che racchiudono dentro di sé i temi principali del tessuto musicale dell’intera opera: uno strano meccanismo “à rebours”, che anticipa ciò che verrà dopo e che quindi fa sì che, inevitabilmente, venga composto alla fine ciò che viene suonato all’inizio.
E difatti, Mozart compone l’Ouverture di Zauberflöte due giorni prima che l’opera venisse rappresentata al Theater auf der Wieden.


3. Zu Hilfe, zu Hilfe…

Sospinto da una cascata di note sulla scena, appare Tamino che, come tutti i Tamini-tapini prima di lui, si aggira in cerca di aiuto, attonito e spaventato su un palcoscenico interamente nero, ingombrato da un serpente di dimensioni imponenti, squame luccicanti multicolori e testa fiammeggiante. Quasi un ring nel quale Tamino va subito knock out.
Ed ecco le tre Dame, che con una sola, sferzante battuta corale – Stirb, Ungeheu’r, durch unsre Macht ! - trionfano su quel primo simbolo del Male e concentrano il loro interesse sul “giovane delicato e bello” che giace svenuto, indifeso alle loro voglie affatto celate.

E’, subito, un momento di intenso, quasi sboccato erotismo: mentre Tamino continua – e da un certo punto in poi sicuramente finge, per non interrompere quel piacevole gioco…! - ad essere svenuto, le Dame lo concupiscono accarezzandolo sulle gambe muscolose, sui fianchi stretti e minuti, compiendo mosse di danza lascive e compiacenti, mentre si disputano la possibilità di restar sole con lui, ciascuna cercando di mandare le altre due ad avvertire la loro sovrana.

Le Dame di Daniele Abbado sono, in effetti, tre gran belle figure, sensuali, ciniche e seduttrici come si deve, vestite di bianco con abiti dallo spacco profondo, da cui si intravvedono gambe lunghe ed affusolate, due bionde ed una bruna…mi ricordano Marylin Monroe e Jane Russel in “Gentlemen prefer blondes”, quando si esibiscono davanti a James Coburn...



Der Vogelfänger bin ich Ja

Per una volta, Papageno, il Vogelfänger di Carla Teti, autrice di questi splendidi costumi, non è conciato come uno strano pupazzo ricoperto di improbabili piume ma è vestito come un “un elementare uomo di natura”. Entra in scena e subito ne prende possesso, spodestando il principe Tamino, che interrogandolo deve subito accorgersi che non basta essere di “furstlichem geblute” (stirpe principesca) per sovrastare un uomo della foresta possiede il dono della semplicità.

Come una volta mi ha fatto notare il mio amico Paolo V., uno degli “abbadiani itineranti” che è qui stasera, con Papageno è Mozart stesso ad entrare in scena: così come è Mozart il Cherubino delle Nozze di Figaro e il Leporello del Don Giovanni: figure ai confini tra realismo magico e pura fantasia, infantili ed immature, che alternano momenti di esaltata giocosità a disperazione ed umane debolezze, esili nella loro fragilità ma in fondo invincibili perchè immuni dalle perversioni del mondo e dalla dimensione romantica dei sentimenti forti.


O zittre nicht, mein lieber Sohn

Arriva uno dei momenti più attesi, l’ “astrifiammante” Regina della notte ( die sternflammende Königin) annunciata da un crescendo orchestrale, portatrice di un bel canto virtuosistico che chiede alla voce di arrampicarsi su su per ottave sempre più impervie (“du, du, du, wirste sie …”).

Questo è uno dei brani in cui tutti diventano subito capaci di facili giudizi e paragoni, come se si fosse in un agone per esecutori; beh, non è davvero gran che questa Regina di stasera, l’unico interprete non all’altezza di questo cast di giovani talenti scovati da Abbado.

Fu Carlo C., uno degli amici che più influenzarono la mia passione per l’opera lirica, a farmi ascoltare per primo le due arie della Regina delle notte. Carlo, esteta e finissimo intellettuale, un fragile nevrotico, anche lui che passava dagli entusiasmi più trascinanti alle depressioni più profonde. Adorava, perciò, i virtuosismi e le donne–virago, le “scudisciate” che la voce del soprano di agilità sa dare quando si arrampica per le note sovracute e di lì sembra sfidare i limiti dell’udito, soggiogando l’ascoltatore che trema, in un delirio sado-masochista, perché la voce non si spezzi.

Era un patito della Callas, a casa sua arieggiava sempre ora Norma ora Violetta, o Carmen, Tosca, …. Nella sua mente esaltata Maria Callas era la madre, era l’amante perduta, era la moglie del suo gran “patron”, con cui andavano ogni estate a Salisburgo passando per Verona, in un “grand Tour” musicale che negli anni ’50 -’60 era diventato immancabile.


Se non Salisburgo, anche per me l’Arena di Verona è stata un appuntamento costante. Quante sere calde, quanti fuggi fuggi per l’improvviso arrivo della pioggia, quella volta che a Corelli cadde la voce nell’aria iniziale dell’Aida e restò, come tutto il pubblico, muto ed attonito, quella volta che portai Luca, non so se aveva ancora sette o otto anni, ad ascoltare il Requiem di Verdi, quel Macbeth con la Bumbry, quel Ballo in Maschera, e poi, in anni più recenti, la Carmen di Zeffirelli, il Nabucco…; e quel risotto fumante dopo lo spettacolo con la corsa per accappararsi un tavolo alle Tre Corone in Piazza Brà….

Da giovani, a Verona arrivavamo, quasi sempre, da San Vigilio di Marebbe, e, senza tanti soldi come eravamo, tornavamo la sera stessa, arrivando a casa quasi all’alba, con gli occhi che bruciavano, tanto avevamo faticato a tenerli aperti mentre guidavamo su per i tornanti della Pusteria…

Torno ancora oggi, ogni anno, all’Arena, immutabile appuntamento che contrasta il tempo che passa e le cose che mutano, molte spariscono.

Non ricordo chi fosse la Konigin che per prima quella sera ascoltai:certo che ne fui ammaliato, ed il giorno dopo corsi a comprare il mio primo Zaubeflote. Quella era l’edizione del Zauberflote diretta da Georg Solti con i Wiener, Kurt Moll nel ruolo di Sarastro e Sumi Jo in quello della Regina della Notte.



“Die Zauberflöte wird dich schützen”

Arriva finalmente in scena, consegnato dalla prima damigella a Tamino, lo Zauberflote d’oro, che ha il potere di trasformare le passioni degli uomini e di difendere dai sortilegi del Male…
Ben tre sono gli strumenti musicali che entrano nell’azione drammatica e che, con il loro suono dotato di magici poteri, distinguono i diversi momenti della storia: oltre al Flauto d’oro, lo zufolo pastorale (Faunenflötchen, lo strumento di Pan) il cui suono annuncia ed accompagna Papageno ed il Glockenspiel d’argento che le Dame gli danno per difendersi a sua volta dai cattivi: quello strumento che, ella prossima scena, dall’effetto esilarante, trasformerà la banda dei minacciosi schiavi di Monostato in ridicoli ballerini.


Tanti anni fa, un mio amico dei più cari, Duccio, ignorante di musica quanto solo un “romano” rozzo e schietto può essere, cadde in un equivoco che avrebbe divertito anche Mozart: un giorno, un suo cugino, cultore d’opera, lo invitò ad andare con lui a Venezia a “sentire il Flauto Magico”. Durante il viaggio non ne parlarono più di tanto, poiché in effetti fra loro di questi argomenti c’era poco da parlare e poiché, essendo ambedue coinvolti in una difficilissima vicenda professionale, avevano altro da dirsi; fatto sta che, giunti in teatro, grandissimo fu lo stupore di Duccio quando finalmente si accorse che il Flauto Magico che erano andati a sentire era, appunto, un’opera lirica e non, come lui era convinto, un concerto di … Severino Gazzelloni !

Die Drei Knaben

I tre magici Genietti attraversano la scena buia e scura trasportati da una macchina scenica che galleggia in alto sul palcoscenico; ed il tempo del loro passaggio crea come una sospensione nel fluire rapido della storia, un pausa ristoratrice tra un’emozione ed un’altra. Siamo ormai in piena fiaba.

Subito dopo, comprai il libretto, che trovai in un’edizione altrettanto “lussuosa” del disco: quel “Il Flauto Magico” edito da Rizzoli, con prefazione di Pietro Citati e postfazione di Giorgio Strehler, due mie passioni già da quegli anni, due artisti “della mia generazione”, come si dice, per dire che più volte loro scritti ed opere sono ricomparsi nella mia vita, sempre lasciando un segno nella memoria e formandone il gusto. Un libro che non riesco più a ritrovare (l’avrò prestato a qualcuno dei tanti che, nel corso della vita, ho cercato di coinvolgere nelle stesse mie passioni…) e di cui oggi ho solo qualche ricordo ma che certo hanno segnato la mia conoscenza e comprensione di quest’opera.

Strelher raccontava una sua visione del Flauto Magico come grande testo teatrale, sino ad allora completamente incompreso dalla tradizione rappresentativa classica; ne parlava anzitutto con amarezza, ricordando la sua esperienza salisburghese (mi sembra del 1974) in cui si trovò stretto tra l’altezzosa e magniloquente impostazione dirigistica di Von Karajan e la tradizione di un teatro concepito su misure disumane e distanze “nibe-lungiche”, il cui pubblico non desiderava altro che vedersi riproporre per l’ennesima volta un classico ritenuto immutabile e rigidamente fissato, come in quella disumanizzazione del teatro che sono le marionette, che non a caso hanno in Zauberflote uno dei pezzi canonici: quella messa in scena del Marionetten Theater di Salisburgo che viene rappresentata immutabile da chissà quanti anni…

Ricordava il suo fastidio per l’ esecuzione da “grande orchestra” che riteneva violare lo spirito di Mozart e Schikaneder, auspicando invece una concertazione realizzata con pochi strumenti ed una regia fatta di elementi poveri, semplici come semplice era il pubblico del Theater auf der Wieden, al quale bastavano effetti di cartapesta per esplodere di meraviglia.

Era la lezione di un Mozart minore, per il quale il flauto magico da mandare in scena doveva essere un normale flauto di legno rivestito di carta dorata lucida, magari qua e là stracciata per lasciar intravvedere la sua “anima” di legno…



Mi sembra di ricordare – o forse sovrappongo due momenti diversi – che nel libro si parlasse anche della versione figurativa che del Flauto magico ha dato Daniele Luzzati, della cui arte Strehler diceva che fosse “costituita dal vento, dai colori frantumati e da buffe illusioni”.

La regia di Daniele Abbado ricorda per tantissimi versi il teatro di Strehler. La stessa, icastica semplicità, lo stesso uso delle luci mirate sulle presenze in scena diradate e sole, la stessa capacità di stupire con una ricerca fantasiosa ed inventiva degli oggetti scenici.

Zurück !

Con uno dei grandi colpi di teatro di cui Zauberflöte abbonda, l’incantesimo tra Tamino ed i tre Geni viene improvvisamente interrotto dall’intimazione da una voce che proviene dall’interno del Tempio: “Zurück !” (Indietro) gridano dalle due porte; e quando Tamino tenta di aprire la terza appare un Sacerdote , che lo apostrofa solenne e severo…

Sarà per la lezione illuminante di Strehler, sarà per qualcosa che dirò in seguito, ciò che mi ha sin dalla prima volta affascinato di Zauberflote sono state, quasi quanto la musica, le parti teatrali: a differenza dei “recitativi” di tutta l’opera settecentesca e pre-romantica, questi brani non hanno nessun accompagnamento strumentale, e pure presentano una straordinaria “musicalità senza musica” che la lingua in cui sono scritti esalta e, forse, rende possibile.

Nell’edizione disco di Solti, gli attori recitano con voci impostate, parlando un tedesco classico, sonoro e possente ed insieme rotondo e privo di quelle ruvidezze che attribuiamo a quella lingua ed a chi la parla; fosse francese, si direbbe con un accento da Comédie francaise… Per capire quanto questi brani siano parte integrante di Zauberflöte, basta ascoltare l’edizione discografica di Böhm, che non contiene i dialoghi: l’opera ne appare impoverita non solo dal punto di vista della comprensione della storia ma anche amputata di momenti ” musicalmente” importanti…..

C’è una lunga storia, fra me e la lingua tedesca: la lingua con cui mi parlò per i primi tre anni di vita mia madre, prima di lasciarmi… la lingua con cui mi parlarono le governanti cui mio padre mi affidò sino a sette anni; e che poi lentamente si ritirò nel profondo della mia memoria ancestrale, sino quasi a non ricordarne che poche parole.

Sinchè..: era il 1972, l’anno delle Olimpiadi di Monaco. Mi capitò di andarci, con quel “patron” e la moglie Maritza la cui amicizia avevo cominciato a dividere con Carlo C.

Era la mia prima volta in quella terra; la sera, dopo un abbondante bevuta in birreria, tornai in albergo un po’ alticcio ed ebbi bisogno di chiedere al portiere un cuscino in più: mi avvicinai alla Reception e… cominciai a parlare tedesco! Con grande scioltezza, chiesi il cuscino, poi mi misi a chiaccherare, raccontando di mia madre austriaca, della bevuta di birra, capendo tutto ciò che il Portiere mi diceva ….

Il mattino dopo, il tedesco era ridiventato una lingua incomprensibile.

La mia “Uhr-lingua” dunque, che mi ha scolpito nella memoria i tanti momenti di grande tensione espressiva del libretto di Schikaneder: come, verso la fine del Primo Atto:


Papageno
Mein Kind, was werden wir nun sprechen ?

Pamina
“Die Wahrheit ! Die Wahrheit
Sei sie auch Verbrechen”.

(“Amica mia, che diremo ora ?” –“ La verità, la verità, anche se fosse un delitto!”)

Altro che piccola donna, debole ed indifesa, come la vede Tamino innamorato !


“Es lebe Sarastro ! Sarastro soll leben !" (Finale I Atto)

Tutte le cose che hanno un ciclo di vita, con un inizio ed una fine – gli esseri viventi del mondo animale e vegetale, le vicende economiche, gran parte della letteratura – condividono una particolarità: che la loro fine, cioè la loro “morte” è il momento dello squallore, dell’abbrutimento, la fase in cui tutto ciò che è stato giovane e bello diventa progressivamente vecchio e brutto.

A questa cifra sfugge l’opera lirica: nel melodramma, il Finale è il momento dell’apoteosi: l’apice della storia, che può essere lieto o tragico – spesso la morte della protagonista o dei protagonisti, come in tutta l’opera del romanticismo ottocentesco, o il trionfo del bene e del giusto, come nell’opera buffa - è segnato da un momento musicale di enorme vitalità, in cui orchestra, solisti e coro si uniscono in un afflato trascinante, con ripetute ascesi in “minore”, per portarci al climax dell’emozione. Come negli spettacoli dei fuochi di artificio...

Anche Mozart compose degli straordinari Finali: forse il più trascinante e magico, quello delle Nozze di Figaro “Contessa, perdono,….”. Un momento che mi è capitato di vivere con l’acme dell’emozione, in una stanza d’albergo di Napoli…

Intervallo

Spentisi gli applausi, con Daniela ci guardiamo sorridenti e ci prendiamo per mano; lei mi dice:”hai negli occhi la felicità !”

* * * *

II Atto


Anche il secondo Atto comincia con un momento di grande musica senza musica: la “March der Priester”, con il dialogo fra Sarastro ed i Sacerdoti, con quello scambio di battute che racchiude tutto l’Illuminismo e la Rivoluzione francese e che ogni volta mi dà un brivido:

Sprecher
Grosser Sarastro, wird Tamino auch die harten
Prüfungen, die seiner warten, bekampfer ?
Er ist Prinz !

Sarastro
Noch mehr ! Er ist Mensch !

(“Grande Sarastro, riuscirà Tamino a superare le dure prove che l’attendono ? Egli e’ un principe !” – “Di più ! Egli è un uomo !”)

Tutta la scena è dominata dai bassi, contrappuntati dai baritoni: un tono scuro e solenne, che mi ricorda la grande scena tra Filippo II ed il Grande Inquisitore, all’inizio del IV Atto del Don Carlos di Verdi.

Anche per il Don Carlos ho avuto una vera e propria infatuazione: per la musica, mille volte ascoltata su disco, per il libretto, il più “politico” e rivoluzionario dei melodrammi, con la lotta di liberazione delle Fiandre; infine, per Grace Bumbry, la statuaria soprano di colore che interpretò la Contessa d’Eboli al Teatro dell’Opera di Roma:

“ Oh don fatale, o don crudele
che in suo furor mi fece il ciel !
Tu che ci fà sì vane ed altere
ti maledico,ti maledico, o mia beltà!”


Assistetti per tre repliche di seguito, aspettando ogni volta la Bumbry fuori dal camerino, finchè l’ultima sera mi riconobbe e mi sorrise, dall’alto del suo metro e novantacinque di altezza.


Tamino, hor ! Du bist verloren !

I due Abbado portano avanti la storia – che di solito in teatro a questo punto si aggroviglia e rallenta – con magistrale agilità: le scene, i brani musicali, i dialoghi concitati si susseguono senza pause, i personaggi entrano ed escono “ a suon di musica” in un incastro perfetto, dando prova della totale, perfetta consonanza fra padre e figlio, finalmente insieme nella creazione di un capolavoro …

La musica, l’opera, Abbado: nel rapporto fra me e Luca, il mio figlio maggiore, sono stati un gran collante, un argomento ed una passione che ci ha tenuto vicini nonostante la vita ci abbia progressivamente allontanati; seppure con intensità molto diverse, per ambedue la musica è la più grande delle passioni, tanto che lui è stato più volte vicino a farne la ragione della sua vita.

Cresciuto e divenuto autonomo, Luca perse pian piano interesse per Verdi e divenne un mozartiano esclusivo, monomaniaco. La sua stanza di adolescente, dove ad un certo punto fece la sua comparsa uno scalcagnato pianoforte, traboccava di dischi, spartiti, libri, foto e quant’altro appartenesse all’universo della musica e sopratutto a quello di Mozart.

Erano gli anni in cui Abbado dominava e sembrava essere un tutt’uno con la Scala: un binomio culturale, ambientale, quasi fisico che nessuno avrebbe detto che si sarebbe mai interrotto.

Un giorno, Luca, gli scrisse una lunga lettera, nella quale gli raccontava un sogno, il suo sogno: visitare accompagnato da lui la Scala, penetrare nei segreti del boccascena, delle quinte, del golfo dell’orchestra.

Spedì quella lettera, e naturalmente aspettò invano una risposta.

Passarono alcuni anni, e finalmente si presentò l’occasione di andare a sentire Abbado insieme: era il 1994, a gennaio, a Ferrara, dove Abbado dava avrebbe dato le Nozze di Figaro.

Fu come, sempre, un’esecuzione magica, che ascoltammo rapiti. Ed alla fine, dopo il profluvio di applausi, il nostro amico Paolo V., l’abbadiano itinerante, che conosceva la storia della lettera, ci infilò nel retro foyer del teatro, dove avevano predisposto la cena per gli orchestrali, gli interpreti ed il Maestro; alla fine della cena, Paolo prese per mano Luca, recalcitrante ed emozionato quanti altri mai, e lo presentò ad Abbado, a cui raccontò della lettera. Ed Abbado, che naturalmente non ricordava assolutamente nulla del genere, fece però mostra di aver presente la cosa e di dispiacersi per non aver potuto rispondergli…

Mutter ! Mutter ! Meine Mutter !

L’ apparizione della Regina della Notte ed il dialogo con Pamina che precede la sua seconda aria è uno dei momenti di grande commozione e di straordinaria attualità: chiunque abbia vissuto una separazione, è certamente passato, in un modo o nell’altro, nello strazio degli insulti che un genitore scaglia contro l’altro cercando di portare suo figlio dalla propria parte: come in questa scena, in cui la Regina, ancora piena di rancore per il padre di Pamina, il dio sconosciuto e senza nome che prima di morire consegnò lo strumento del potere al Grande Sacerdote Sarastro, tenta di sfruttare l’amore di Pamina per Tamino per catturarne la complicità, per portarla dalla sua parte e convincerla a scherarsi contro gli “Eingeweihten” (gli “Iniziati”). E Pamina, come tutti i figli in queste situazioni, resiste, cerca una mediazione (“Madre cara, ma non potrei con uguale tenerezza amare questo giovane sia pure da iniziato, come lo amo ora ? Mio padre, egli stesso, era legato a quegli uomini saggi, con ammirazione parlava sempre di loro, ne lodava la bontà, la virtù e l’intelligenza…”)

Ma i tentativi di Pamina si infrangono contro la adamantina durezza della Regine della Notte, che prorompe in un canto-invettiva dalla tessitura siderale, l’impeto demoniaco e freddo dell’ira che accompagna il dolore:

“ Der Holle Rache kocht in meinem Herzen,
Tod und Verweiflung flammet un mich her !”

(“Vendetta d’inferno mi brucia nel cuore, disperazione e morte mi fiammano intorno !”)

Ricordo una recensione di tanti anni fa di Michelangelo Zurletti sul Flauto magico che Sawallisch dette all’Auditorium della Rai, nella quale è contenuta un’intuizione critica che mi colpì: dice Zurletti che Mozart, giunto con Zauberflöte alla fine del suo personale viaggio “verso la luce” (viaggio di cui Zauberflöte è la metafora), sancisce in questa sua ultima opera il definitivo superamento del prediletto suo amore giovanile verso lo stile operistico italiano, imponendo una nuova maniera tedesca che anticipa la grande stagione dei “lied” ; tanto che l’unico personaggio dell’opera che presenta ancora cararatteristiche di virtuosismo vocale all’italiana (la “barbarie della vocalità esasperata dagli schemi ormai consunti”) è, appunto, la Regina della Notte, che nella struttura della storia impersona il male e la malvagità.

In diesen Heiligen Hallen

Nelle “sacre Sale” del regno di Sarastro, Schikaneder e Mozart fanno risuonare la visione “politica” di un mondo in cui “mensch den menschen liebt, kann kein Verrater lauern weil man dem Feind vergibt” (“l’uomo ama l’uomo, il traditore non insidia, poiché al nemico si perdona”).

Poco so della massoneria storica, quel poco che basta per assimilarla agli ideali rivoluzionari, siano quelli dell’imminente Rivoluzione francese o quelli dell’Ottobre del ’17: la fede in un mondo migliore, in un “nuovo” nel quale trionfano la solidarietà, la fraternità, la pace. Insomma, il Socialismo in terra.

Abbado – assecondato da un momento particolarmente ispirato della regia di Daniele – mette particolare enfasi in questo brano, allontanandosi dalla cifra leggera e favolistica sinora mantenuta.

Senti che ora è Abbado uomo, prima ancora che uomo di musica, che traguarda una società guidata dalla bellezza e dalla saggezza, libera dalle barriere di classe. L’Abbado che pochi mesi è stato a Cuba, e che, di fronte alle critiche, dichiara: “Io cerco il bene in qualsiasi circostanza. Mi trovo a Cuba e non guardo il male, ma evidenzio il bene.Mi trovo in America e cerco il bene e cosi di fronte ad ogni cultura cerco i lati positivi, per poter migliorare me stesso e tutto quello che mi circonda” (…) "Prendo un pezzo della loro cultura , la porto con me e faccio crescere me, loro e noi tutti e questo per me è libertà”.

"Ach, ich fühl´s"

Per quel profano e dilettante che io sono, ciò che, quando capita, rende indimenticabile un’esecuzione è la scoperta di un brano che, sinora ascoltato senza particolare piacere o interesse, improvvisamente e per la prima volta rivela tutta la sua grandezza: e questa sera, grazie ad Abbado ed alla Pamina di Rachel Harnisch, scopro questa spettacolare aria d’amore e di sofferenza, che mi soggioga ed avvince nel suo pianissimo insistito, quasi soffiato; sembra mille volte più bella della più celebre romanza d’amore di Tamino, nel I Atto: “Dies' Bildnis ist bezaubernd schön, wie noch kein Auge je gesehn…..” (“Ritratto di incantevole bellezza, come occhio non ha mai veduto…”).

Quello è l’amore subitaneo e passionale di un giovane immaturo, lo stesso sentimento che Mozart dichiarava nelle sue lettere impazienti e turbinose alla sua Stanzi; questo di Pamina, nonostante – o forse proprio perché – insorto per un “principe azzurro” che lei non ha mai nemmeno visto ma solo sentito descrivere da Papageno, è l’amore assoluto e convinto, tanto più forte quanto colto nel momento in cui ella teme che “Nimmer kommt ihr Wonnestunden meinem herzen mehr zurück” (le ore felici non ritorneranno mai più nel mio cuore !)

Questa delle “rivelazioni” è la cifra che fa di Abbado un interprete unico. Ricordo ancora l’effetto grandissimo che mi fece, in disco, il Barbiere di Siviglia del 1971, l’edizione basata sulla revisione critica di Alberto Zedda: scoprii come sia possibile che un testo abusato, consunto dagli ascolti più diversi e financo dozzinali, ormai divenuto tutto un refrain, può diventare qualcosa di completamente nuovo, rivelare angoli nascosti, melodie ed accordi rimasti come inascoltati ed improvvisamente ritornati alla luce. E, quel che importa di più, è che senti che questa ricerca non ha nessun fine sensazionalistico, nessuna pretesa né desiderio di stupire(come invece, se posso dirlo, sembra fare talvolta Muti, anche lui autore di personalissime interpretazioni …).

O Isis un Osiris, welche Wonne !

Guardandolo dirigere, ormai da oltre un’ora e mezza, non posso non accorgermi che i tratti del volto di Abbado si fanno più tirati, che ogni tanto si lascia sfuggire un respiro in “controtempo” con la musica… Ammiro la sua energia, eppure sento che gli anni passano anche per lui …

Anche sul grande tema della vecchiaia, che da tanti anni mi affascina, da ben prima che diventasse anche per me di attualità, ho ricordi mozartiani, nonostante che l’”eterno fanciullo” non l’abbia mai espressamente affrontato. Il lento abbandono alla vita introspettiva dell’ultima età è, per chi lo ricorda, il tema attorno al quale si svolge il penultimo film di Luchino Visconti, il “Ritratto di famiglia in un interno”, con Burt Lancaster – ahimè quanto ormai diverso da quello splendente Principe di Salina del Gattopardo – che si aggira solo nella sua casa piena di quadri ed oggetti preziosi, minacciati dall’invadenza dei nouveaux riches (l’arcigna e prepotente Silvana Mangano e il suo tenebroso amante Helmut Berger).

E lì c’è quella bellissima scena in cui il vecchio professore mette sul suo giradischi (un Bang & Olufsen, naturalmente) il lieder di Mozart “Vorrei spiegarvi oh Dio”: un canto dolcissimo che sembra presagire il suo incontro con il suo ultimo momento…

Credo che ogni melomane abbia più volte pensato, magari cambiando spesso idea, a quale musica vorrebbe si suonasse al suo funerale. Io sono passato, a seconda delle stagioni e delle mie passioni del momento, dal Miserere del Trovatore al Requiem di Verdi, a quello di Mozart… Ma da un po’ di anni, mi sono fermato all’ultimo dei Vier Letzte Lieder di Strauss, “Im Abendrot”, con quello struggente intermezzo per violino solo ed il finale con i trilli di flauto sempre più flebili e lontani… un flauto che ha perso tutte le capacità miracolose che vi aveva infuso la Regina delle Notte per aiutare Tamino nel suo viaggio di conquista della luce.

Finale: Zwei Herzen, die von Liebe brennen…

“…kann menschnohnmacht neimals trennen (“Due cuori che ardono d’amore, nessun potere umano può dividerli”). Come tante opere, anche Zauberflöte si conclude con il trionfo dell’amore che ha sconfitto tutti gli ostacoli.

Non ricordo chi scrisse che in fondo il melodramma, tutto il melodramma, non è che la storia di un amore tra il tenore e la soprano a cui il baritono si oppone. Ma Zauberflöte è molto più complesso, il centro della storia, la sua novità e la fantasia narrativa di cui è fatta sono gli ostacoli, non il sentimento, racchiuso nelle sole due arie di cui ho parlato.

Eppure, giunti alla fine, Mozart, Schikaneder, Claudio e Daniele Abbado si lasciano andare, la scena “si trasforma in un Sole” (dice la didascalia originale) e Sarastro, i preti, gli schiavi, i negri, il popolo, i soldati, tutte le figure possibili del teatro irrompono sulla scena per celebrare la “Coppia”, l’unione di male e bene, di Yin e Yang, la coppia spirituale di Tamino e Pamina e la coppia terrena di Papageno e Papageno…Daniele Abbado, con una bellissima invenzione “brechtiana”, aggiunge alla moltitudine dei personaggi della storia anche la moltitudine dell’orchestra, che, lasciato il golfo mistico, irrompe anch’essa sulla scena insieme ad Abbado ed avanza brandendo ciascuno il suo strumento verso il pubblico che già è in festa.

Roma, 22 giugno 2004: è il compleanno di Daniela, ed ho deciso di regalarle una cena particolare: andiamo alla Casina Valadier, che ha appena riaperto dopo anni di tormentati restauri; è uno dei luoghi magici di Roma, la terrazza sul Pincio, da cui si gode il tramonto dietro San Pietro e la prima frescura delle serate romane d’estate.

E mentre ceniamo, ad un certo punto ecco salire giù da Piazza del Popolo per le pendici del colle, il canto inconfondibile dell’incontro tra Papageno e Papagena: quel “Pa- pa-pa-pa-pa-papagena” che segna l’inizio della festa. Ci guardiamo senza capire…

Ma certo ! Sono le prove dello Zauberflötee che domani sera daranno all’aperto proprio a Piazza del Popolo, diretto da Gianluigi Gelmetti e con le scene di Pierluigi Pizzi.

Non sono andato, la sera dopo, a sentirlo: mi è bastato quel piccolo assaggio di magia, per sapere definitivamente che Zauberflote è definitivamente uno dei compagni inseparabili della mia vita. Ed ancora non sapevo che avrei avuto la fortuna della serata di Reggio Emilia…


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