LA CRONACA Guy Cherqui
Il labirinto del sentimento
TORINO 29 Aprile 2006 Schönberg Monica Bacelli GUSTAV MAHLER Claudio Abbado
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Abbado a Torino Tengo nella memoria lo sconvolgente Pelleas und Melisande di Vienna del 12 maggio 2002, la vigilia dell’addio definitivo ai Berliner . In quella serata, la musica di Schönberg risuonava talmente nel cuore che l’emozione si leggeva sulle facce e negli occhi dei musicisti, al limite del sopportabile . A Torino, è stata un’altra cosa, meno « sentita » che a Vienna, perché a Vienna la circostanza era particolare, ma un’altra emozione ci ha preso, legata al poema sinfonico di Schönberg, ascoltato due settimane dopo il Pelléas di Debussy eseguito a Salisburgo, che Schönberg non conosceva quando scoprì la pièce di Maeterlinck e decise di comporne un poema sinfonico. Però, anche se non si conoscevano, ci sono indubbi echi (non volontari) tra l’una e l’altra. L’interpretazione di Abbado colpisce per la sua fluidità, che rende quanto più tragica la corsa all’abisso che la storia racconta. Abbado non scandisce mai i passaggi da un quadro all’altro, da una scena all’altra : tutto si concatena in modo irriducibile, con i suoi momenti di tensione, di tenerezza, con quel lento diminuendo finale che slitta verso la morte. Malgrado un organico imponente (tre arpe, dodici contrabbassi), si potrebbe pensare che il poema manchi di drammaticità e di spessore, ma in realtà esso risponde perfettamente all’originale di Maeterlinck (e a Debussy), essendo una successione di momenti che conducono allo snodo finale, dove la tensione drammatica lascia ripetutamente spazio ad una malinconia soffocante . I momenti di tensione sono, in un certo modo, intrecciati con il resto: tutto è detto fin dall’inizio, basta lasciarsi trascinare verso la fine. Il pezzo viene eseguito con una stupefacente semplicità, senza effetti, con una chiarezza cristallina, si sente ogni parte, ogni strumento, ogni piano, malgrado la volontà di ammorbidire il suono all’estremo (i flauti hanno perfino dei fazzoletti per attenuare gli effetti). Vorrei ricordare fra tutti i violoncelli (guidati dal giovane e talentuoso Benoît Grenet) e i contrabbassi che a fine percorso dominano e danno questo colore così particolare al finale della partitura. C’è una tensione emotiva e un impegno che colpiscono e ricordano i Gurrelieder (ci piacerebbe tanto riascoltarli, sotto la direzione di Abbado, è così vivo il ricordo della tournee estiva 1996 della GMJO) o certi pezzi di Strauss. Poi arriva il contrasto forte tra il discorso buio di Schönberg, e la gioia bucolica e mistica espressa dalla sinfonia di Mahler, composta un anno prima, e che dimostra che dal simbolismo al misticismo ci vuole poco, un passo che i compositori dell’epoca, Mahler per primo, hanno fatto. In due settimane, ho avuto la fortuna di ascoltare due volte la sinfonia n°4 di Mahler, una a Salisburgo, con i Berliner Philharmoniker diretti da Sir Simon Rattle, l’altra a Torino, con Abbado e la GMJO. A queste due esecuzioni si aggiunge il ricordo di Berlino nel 2005 (Berliner Philharmoniker, Claudio Abbado) e l’incisione DG che ne è stata pubblicata. Senza avere l’intento di paragonare in termini qualitativi due prestazioni diversissime tra di loro, siamo costretti a paragonare due approcci musicali che privilegiano punti d’ingresso diversi, anche opposti. Gli spettatori di Salisburgo sono usciti dal concerto pieni di ammirazione per la prestazione dell’orchestra di Berlino : la perfezione dell’esecuzione tecnica lascia di stucco, anche a chi è abituato a sentirli da tempo. Il modo di eseguire i suoni più tenui, gli attacchi così netti e puliti, la pienezza sonora, mentre una volta di più siamo costretti a notare l’oboe di Albrecht Mayer e il corno inglese di Dominik Wollenweber; tutto questo è già storia, ma merita sempre di essere ricordato e sottolineato. Con tale strumento, di sicuro la più grande delle orchestre, Sir Simon Rattle non ha difficoltà a far sentire le sue scelte interpretative ; siamo all’apice e le nostre riflessioni non possono sminuire i meriti di ciascuno. Simon Rattle ha un senso acuto della teatralizzazione musicale : costruisce sempre una regia del suono, accentuando i contrasti, andando verso l’estremo, pianissimo oppure fortissimo, mettendo in rilievo tale o talaltro strumento, al servizio di un effetto da produrre, come se il pezzo da ascoltare fosse prima di tutto “rappresentazione”. C’è da un lato « L’arte per l’arte » in questa visione, con le sue acrobazie, la sua tecnicità estrema e ammirevole ma spesso senza dirci nulla. La sinfonia c’è, la ammiriamo, come un blocco marmoreo e qualche volta un pò freddo. Unica nota « umana », la bella interpretazione, molto naturale, del Lied del ciclo « Des Knaben Wunderhorn » data da Magdalena Kožena, che rinvia la prestazione di Renée Fleming con Abbado l’anno scorso nel dimenticatoio della storia. Sir Simon Rattle fa musica da regista, da scenografo, da pittore alla David, da architetto alla Bernini : costruisce un monumento. Dall’altra parte dello spettro, Claudio Abbado, con un’orchestra giovanile, senza esperienza se non l’alto livello tecnico imparato nei conservatori o presso i maestri, senza esperienza se non quella che permette la loro giovane età, senza cultura musicale se non le esperienze da allievo, ma con il geniale intuito degli artisti veri. Claudio Abbado insegna loro come entrare nell’opera, insegna la forma (e com’è difficile, la forma, quando impone di tenere delle note appena udibili, quando sminuisce il suono fino al silenzio, quando rompe brutalmente il ritmo; ma questa forma è al servizio di un discorso interpretativo sulla musica), e il fondo, che è l’indicibile espressione della gioia del momento. Niente spettacolo, nulla di spettacolare: c’è un discorso che si svela a noi, che dice qualcosa sulla vita, sulla difficoltà e la contraddizione : si passa dall’emozione estrema alla derisione: il terzo tempo, con i suoi momenti lirici all’inizio, poi i suoi momenti esplosivi, al limite del « troppo », un tanto di volgarità, di questa volgarità di cui Mahler fa uso per rompere le emozioni, per non lasciarsi andare al compiacimento. Nello stesso spirito di Magdalena Kožena, Monica Bacelli è naturale, semplice, fluida, umana, come tra l’altro tutta la sinfonia, sotto il segno dell’evidenza. L’interpretazione è vicina a quella di Berlino l’anno scorso, ma ci è sembrato che Abbado usasse questa volta ancora di più il rubato, come per accentuare l’emotività e l’espressione della sensibilità, forse come eco al giovanile entusiasmo dei musicisti, che tiene completamente nella sua mano. Abbado fa musica da umanista, da artista sensibile e qualche volta tormentato, da architetto alla Borromini. Costruisce un labirinto. Tra l’altro, il discorso tenuto pochi giorni fa sull’esperienza venezueliana lo conferma: la musica ha qualcosa da dire su noi stessi, a partire dalla lettura di un autore, la cui sofferenza, la cui emozione, la cui gioia sono offerte al servizio del nostro catartico ascolto (spesso Abbado suona Mahler a partire dell’espressione della sofferenza, lo ha più volte ripetuto). Quindi si capisce perché Abbado è così amato dai giovani : non insegna a suonare, ma a sentire. Siccome il loro livello tecnico è eccezionale, non hanno difficoltà a dare la tonalità giusta ad ogni nota suonata. Fare musica insieme, vuol dire stare insieme, essere un gruppo, il più compatto possibile (gli addii commossi dei giovani tra di loro alla fine del concerto ne sono il segno più evidente), poi fare, suonare, e dunque sentire. E’ chiaro che i diversi progetti di fondazione di orchestre di Claudio Abbado sono progetti per stare insieme, per fare insieme, per sentire insieme: ecco la chiave della musica per Abbado. Ed è senza dubbio quello che provoca da parte del pubblico questi deliri d’emozione che abbiamo provato tutti qua e là, meno a Torino forse dove il pubblico era all’inizio distratto, e sempre incapace di stare in silenzio quando il momento lo richiedeva -, ma a Vienna in particolare, la città di Mahler, la capitale della musica, dove, come a Berlino, la musica è un bisogno prima di essere uno spettacolo. |
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