LA CRONACA Vittorio Mascherpa
Anello musicale
BERLINO 19-20-21 maggio 2006 Wagner Anne Sofie von Otter BERLINER Claudio Abbado
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Domenica 21 maggio ho assistito all’ultima replica del concerto con i Berliner Philharmoniker diretto da Claudio Abbado a Berlino. Innanzitutto, due parole sul programma: “pezzo forte” ne appariva l’esecuzione integrale, in forma semiscenica, del ‘Manfred’ opus 115 di Schumann, ampia composizione sinfonico-corale che sfrutta una traduzione tedesca, ridotta di circa un quarto dei versi dal compositore, dell’omonimo poema drammatico di George Gordon Byron. È un testo di febbrile romanticismo, la cui realizzazione completa non è frequente neppure in Germania; a Milano ne ricordo un’unica esecuzione alla Scala, nell’ottobre 1980, affidata dall’allora direttore musicale (inutile dire chi fosse…) a un fresco vincitore del Premio Cantelli, Donato Renzetti, con la collaborazione di Carmelo Bene, finissimo traduttore italiano e interprete, con grande virtuosismo, di tutte le parti parlate maschili, e di Lydia Mancinelli. A Berlino, in quest’occasione, ‘Manfred’ era preceduto dai cinque famosi ‘Wesendonck-Lieder’, scritti da Wagner negli anni del ‘Tristano’, su poesie, invero non eccelse, di Mathilde Wesendonck, una delle donne che la frequentazione personale con il sommo musicista ha consegnato ‘in nomine’ all’immortalità. Scritti originariamente con accompagnamento di pianoforte, uno di questi Lieder (‘Träume’, “Sogni”) fu poi convertito dallo stesso Wagner in una ‘Romanze’ per violino e orchestra, mentre gli altri quattro furono strumentati, qualche decennio dopo, dal direttore Felix Mottl, con una timbrica forse non originalissima, ma indubbiamente di stretta “osservanza” wagneriana. Reintegrata la voce nel pezzo strumentato dall’Autore, il breve ciclo è diventato, a ragione, uno dei capisaldi del repertorio liederistico tedesco con orchestra, sorta di ‘Parerga’ del capolavoro del quale la Wesendonck è considerata l’ispiratrice. La parte vocale è stata cantata, da Anne Sofie von Otter, la cui sensibilità e duttilità d’interprete non conosce confini linguistici (ne ricordo, alle Palme del 2003 a Lucerna, un’esecuzione, vibrante per incisiva riservatezza, dei canti raveliani di ‘Shéhérazade’, con la Gustav-Mahler-Jugendorchester diretta dall’altro “grandissimo” della direzione d’orchestra dei nostri anni, Pierre Boulez). Sin dalle poche battute d’introduzione orchestrale al primo Lied, colpivano sia la lettura “cameristica” di Abbado, sia l’ottimo “stato di salute” dei Berliner (presenti, in questa prima parte del concerto, a ranghi ridotti). Si coglie, in questa fase dell’itinerario interpretativo di Abbado, una libertà di fraseggio che rende il “respiro” delle frasi musicali con un’espressività di grande naturalezza, “quasi parlando”. Tutto rimane di logica serratissima, e l’esecuzione sembra sopperire alle limitazioni proprie della notazione musicale. Credo che questo possa risultare molto chiaro a chi ricorda le recenti esecuzioni della ‘Serenata’ opus 11 di Brahms a Ferrara e a Reggio Emilia, in ispecie la mobilissima quadratura dei minuetti. Ed eccoci a Schumann. Dopo la celebre ouverture, che un’esecuzione adeguata fa apparire come il capo d’opera orchestrale del suo Autore, ‘Manfred’, compiuto all’inizio degli anni 1850, è articolato in quindici “numeri”. Franz Liszt lo diresse per la prima volta nel 1852 a Weimar, ma Schumann, ormai gravemente minato dall’affezione cerebro-spinale che lo spegnerà di lí a qualche anno, non fu in condizione d’assistere. Oltre all’orchestra, l’organico comprende un coro piccolo e due gruppi di solisti, rispettivamente quattro voci miste e due voci basse maschili. La recitazione della maggior parte del testo si svolge tra i successivi numeri musicali; talvolta sovrapponendosi ad essi con la tecnica illustre del ‘Melodram’, o “melologo”, parlato senza intonazione e senza costrizione ritmica sul tessuto orchestrale che ne illustra l’emotività e la commenta. I personaggi, oltre all’onnipresente Manfred, sono quattro: umani, come il Cacciatore di camosci e l’Abate, o simbolici, come la Maga delle Alpi e Astarte, in Byron sorella di Manfred (ma Schumann elimina dalla propria versione il riferimento all’amore incestuoso tra i due). Mi sembra difficile supporre che queste figure, almeno le maschili, altro siano che proiezioni della fantasia allucinata di Manfred, e a questa linea interpretativa s’era splendidamente attenuto Carmelo Bene nell’esecuzione milanese del 1980. Qui a Berlino, ciascun personaggio ha avuto, invece, un interprete proprio: il ruolo del titolo era coperto dal famoso Bruno Ganz, e da Peter Fitz quello dell’Abate, importantissimo nel finale forse del loro colloquio non fu immemore Hugo von Hofmannsthal nell’addio di Jedermann e della Madre, o forse la tradizione esecutiva di quest’ultimo è cosí forte, nel teatro di lingua tedesca, da emergere anche in occasioni piú lontane. Non so se per necessità o per scelta, entrambi questi attori hanno letto la loro parte: non direi che l‘espressività ne abbia guadagnato, ma, ovviamente, gli ascoltatori di lingua madre tedesca hanno potuto apprezzare meglio di me il magistero degl’interpreti. A me è sembrato che alle esplosioni dell’ira Ganz non abbia sempre accompagnato la sensazione del tormento, dal quale essa nasce e che intride cosí a fondo la musica di ‘Manfred’. Visivamente molto efficace, comunque, è stato l’utilizzo della struttura, cosí sviluppata in verticale, della grande sala berlinese. Sul versante musicale le cose sono andate in modo esaltante. I brevi interventi corali (tra cui segnalo due numeri ai quali non è estraneo il ricordo, per la violenta e concisa immediatezza, delle ‘turbae’ nelle ‘Passioni’ bachiane) erano affidata al coro della Radio bavarese, che ha impressionato anche per la granitica sicurezza negli attacchi e la splendida compattezza timbrica. I sei solisti, tra i quali, insieme alla von Otter, Kurt Azesberger, recente Monostatos, e Julia Kleiter, recente Papagena, hanno dimostrato una perfetta integrazione nell’insieme, pur mantenendo sempre percepibile e distinto il loro ruolo drammatico da quello “narrativo” dell’orchestra. Su tutto regnava, presente in ogni minimo particolare dell’esecuzione anche quando sembrava riposarsi durante i non breve interventi parlati, il volto e il gesto di Claudio Abbado, che la posizione in sala m’ha consentito di seguire particolarmente bene. Il pensiero corre ad altre complesse occasioni in cui l’esito dell’esecuzione era nato, come in questi giorni, dalla suprema capacità di concentrazione del direttore, radicata in una conoscenza della letteratura, musicale e non, e del suo contesto storico che ha, io credo, ben poche possibilità di paragone nell’intera storia dell’esecuzione: al memorabile concerto dell’aprile 2002, in cui Abbado diede l’addio al pubblico berlinese come direttore stabile dei Berliner, quando lo scorrere inesorabile delle immagini cinematografiche del ‘Re Lear’ secondo Kozintsev non coartò mai l’autonomo e libero respiro dell’esecuzione musicale, o al ‘Sogno’ mendelssohniano di Ferrara con la Braschi, o ancora alle ‘Scene’ schumanniane dal ‘Faust’ di Goethe, in una delle ultime Pasque salisburghesi. Ne è derivata una resa del testo musicale del ‘Manfred’ che, senza concedere nulla all’effetto, ha denotato per tutti gli 85 minuti dell’esecuzione un controllo strutturale saldissimo e, tramite esso, ha realizzato una comunicazione di grande intensità emotiva. Da quest’esecuzione, di cosí sovrana razionalità, l’ultimo ‘opus magnum’ del musicista di Zwickau m’è apparso come l’anello musicale tra il teatro di Mozart e quello di Wagner.
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