LA SCALA IN CRISI

La Repubblica
3 Marzo 2005

La Scala attraversa una grande crisi: crisi di fiducia del suo personale verso i dirigenti
crisi di pubblico
crisi di idee e di progettazione
crisi tra lo staff dirigente
Il consiglio ha silurato Carlo Fontana: la decisione unilaterale non risolve nulla, perché in 18 anni di gestione artistica dominata dalla personnalità di Riccardo Muti, non è emerso una politica chiara, e si sono successi molti direttori artistici per breve tempo senza veramente dare una linea al teatro.
Si è creduto che bastava il nome Scala per far andare la baracca, si scopre che un teatro senza contenuto valido, senza offerta rigorosa presto o tardi entra in crisi.
Peccato, ma ci volgliono senza dubbio altri cambiamenti radicali






















 

La Repubblica

03-03-05, pagina 1, sezione PRIMA PAGINA

l' inchiesta

La nuova Scala che divide Milano

Dopo il siluramento di Fontana

GIULIO ANSELMI

UN BALLO in maschera. La forza del destino. O, più spesso: I masnadieri. I milanesi sprecano le metafore, pescando a piene mani dalla drammaturgia verdiana, che è un tutt' uno con la Scala e assieme al gran teatro si identifica con la musica, la cultura e i miti nazionali. Andando al nocciolo, la guerriglia - che si trascina da giorni nei cinquecento metri che racchiudono il tempio del Piermarini, il cubone cinquecentesco del palazzo comunale, la vecchia Comit, la Galleria e Mediobanca - nasce da un groviglio di cattiva gestione, arroganza e superficialità: il classico contenuto di molte lotte di potere, che qui è esploso con la cacciata del sovrintendente Fontana ed è divampato fino a costringere il sindaco Gabriele Albertini, illividito e rancoroso, a disertare il consiglio comunale per l' incapacità di dire qualcosa. SEGUE A PAGINA 15 «Una storia brutta per tutti», mormora equanime Anna Crespi Morbio, presidente degli Amici della Scala, benemerita associazione che è una sorta di sacrestia della cattedrale. «Un grande dolore», intimizza Milly Moratti, consigliere comunale verde e moglie del signore dell' Inter, Massimo. «Una situazione incancrenita da tempo», storicizza Rosellina Archinto, editrice e protagonista della vita culturale. Le tre signore della miglior borghesia meneghina non accettano la semplificazione che riduce tutto alla lotta senza quartiere scatenata dal maestro Riccardo Muti al sovrintendente Carlo Fontana. I due, certo, non si andavano a genio, ma finché il secondo prendeva ordini, letteralmente a bacchetta, dall' altro, la diarchia in qualche modo procedeva. Circa un anno e mezzo fa, in piena ristrutturazione della storica sede, il conflitto esplose con l' inevitabile contorno di pettegolezzi più o meno piccanti. La prosaica verità, secondo molti, è che la preoccupazione del manager per il bilancio in netto peggioramento e le sue continue richieste di note e giustificativi infastidivano il maestro, poco propenso, come tutti gli artisti, a far di conto. Muti borbottava contro l' inadeguatezza dell' altro, ne dichiarava l' isolamento internazionale, criticava l' eccesso di co-produzioni e scimmiottava, con la verve che non gli manca, le sue difficoltà con l' inglese. Finché è arrivato, con compiti di mediatore, Mauro Meli, curriculum modesto alle spalle conquistato tra Ferrara e Cagliari, un diploma di chitarra al conservatorio che fa alzare il sopracciglio ai più titolati colleghi. Ma non è bastato a evitare, a metà febbraio, l' ultimatum imposto da Muti: o lui o io. Ora che è fresco sovrintendente, Meli sta sotto il tiro incrociato degli orchestrali e di tutti i dipendenti scaligeri, che non lo vogliono nemmeno vedere. Ma per la difesa a spada tratta del nuovo venuto, oltre che per la sdegnosa solitudine in cui si è chiuso, rifiutando di incontrare gli orchestrali, le polemiche hanno investito anche lui, l' applauditissimo protagonista di diciassette successive "prime" scaligere, il divo a cui i fans hanno gettato lunedì sera dal loggione centinaia di manifestini encomiastici: «Maestro, le chiediamo scusa per questo affronto perpetrato nei suoi confronti. Viva l' arte, viva la musica, viva il teatro alla Scala, viva Riccardo Muti». Il primo capitolo del dopoguerra, quando ci sarà, riguarda proprio Muti. «Se va via è una catastrofe musicale», si accalora Anna Crespi. «Certo, a 61 anni non si può cambiare carattere e il carattere è: io sono la Scala, non soltanto un bravo direttore». Il grosso dei melomani cittadini, anche quelli meno emotivi, come il finanziere Francesco Micheli, è mutiano. Ma, per la prima volta, le voci discordi salgono di numero e di tono: «Milano ha saputo fare a meno di Abbado (cacciato nell' 86 proprio da una rivolta degli orchestrali, ndr). Sopravviverà anche a Muti», dice Marilena Adamo, ds, vicepresidente del consiglio comunale. Tutti i critici riconoscono la straordinaria capacità del direttore musicale, ma aumentano quelli che lo accusano d' essere esageratamente egocentrico e conservatore. Sottovoce, girano i nomi di Claudio Abbado, di Antonio Pappano, oggi al Covent Garden, di Riccardo Chailly. L' altra area di crisi riguarda la gestione. Da quando è diventata una fondazione di diritto privato, la Scala si trova in una situazione simile alla Mediobanca dell' età aurea di Cuccia: il sindaco presiede, gli enti pubblici coprono la stragrande maggioranza delle spese, i privati comandano. I privati sono: Bruno Ermolli, vicepresidente, consigliere e stratega di Berlusconi; Fedele Confalonieri, numero uno di Mediaset, che curiosamente rappresenta in consiglio la Cariplo, presidente della Filarmonica della Scala, grande appassionato di musica; Marco Tronchetti Provera, capo di Pirelli e di Telecom, protagonista della grande operazione immobiliare alla Bicocca, dove sorgevano gli stabilimenti di pneumatici e cavi e dove è nato il nuovo teatro degli Arcimboldi che, durante la ristrutturazione, ha sostituito il Piermarini; un po' defilato, il presidente dell' Eni Vittorio Mincato. La Regione Lombardia è rappresentata dall' avvocato Paolo Sciumè, ciellino, indagato per il crac di Parmalat Finanziaria. Il "monocolore berlusconiano", come lo chiama l' opposizione, si è mosso male: l' opinione pubblica e gli appassionati di cose scaligere (il che sta a dire establishment e popolo milanesi perché platea, palchi e loggione, con le debite differenze di censo e snobismo, rappresentano prima un fatto sociale che culturale) contestano le mille distrazioni ed esitazioni sfociate, con sospetta rapidità, nella rimozione che, dice Paolo Martelli, presidente della fondazione Milano per la Scala, «è stata motivata come una medaglia al valore». Insomma, se c' è qualche critica da muovere a Fontana, nessuno ha avuto il coraggio di esprimerla. Le interpretazioni si sprecano. In parte vengono trovate nel desiderio di compiacere Muti, ammiratissimo soprattutto da Confalonieri. Il maestro, da parte sua, non ha mai nascosto di augurarsi che il milanesone Fedele diventi sindaco, o, almeno, sovrintendente. «Sarebbe un disastro», dice un notissimo avvocato, appassionato melomane, che pretende l' anonimato per ragion di clientela, «perché Confalonieri è un amatore, non un intenditore. La parola di Muti diverrebbe legge». Molti assicurano che Fontana è stato indebolito anche dalla sua incertezza verso l' Arcimboldi, il cui futuro è malsicuro per gli altissimi costi che i due teatri, sommati, comportano. E Tronchetti è preoccupato che il marchio della Scala resti a nobilitare una struttura che rappresenta il fiore all' occhiello dell' area periferica, la Bicocca, dove ha fatto un grosso investimento. Vi sono poi interessi meno chiari: secondo il presidente della IV sezione della Corte d' appello, Renato Caccamo, che in un dossier ha spiegato la "dubbia qualificazione al ruolo" di Meli, la figura chiave del ribaltone è l' agente Valentin Proczynski, costosissimo, potente e chiacchierato, dei cui uffici la Scala non aveva mai avuto bisogno e che, da quando c' è Meli, col quale ha avuto rapporti in Sardegna, si incontra con crescente frequenza a Milano. Ma, secondo Milly Moratti, le responsabilità del consiglio sono più gravi e più antiche: risalgono alla ristrutturazione e ai suoi costi, che rischiano di far saltare il bilancio del Comune di Milano, al "mostro Arcimboldi", alla «finta prima realizzata per soddisfare la megalomania della maggioranza». In effetti, la situazione finanziaria è sempre più preoccupante, con un deficit che, per ammissione degli amministratori, potrebbe passare da 6 a 16 milioni di euro. E finora, una ristrutturazione faraonica (il progetto Botta), è costata 300 miliardi di vecchie lire. Che il problema Scala non vada ridotto al caso Fontana è dimostrato anche dal fatto che, a poche ore dalla caduta, nessuno è disposto a piangere troppo sulla sorte dell' ex sovrintendente passato dal Psi alla Lega, avvicinatosi poi ad Albertini e infine iscritto a un circolo liberal della società civile: a Milano si sprecano le battute sul suo "pattinaggio artistico". Anche la sinistra, che ha tutto l' interesse a cavalcare la vicenda, non si è lasciata indurre a farne un eroe contro Meli, che, da parte sua, vanta trascorsi ds, ma si caratterizza come un navigatore altrettanto avventuroso. «Non è certo uno scontro ideologico», ammette Salvatore Carubba, dimessosi da assessore alla Cultura, un po' per vecchie ruggini col sindaco, un po' perché tenuto fuori dall' affaire, un po' perché deluso dal centro-destra. E non va nemmeno strumentalizzato ai fini della campagna elettorale. Inquietante, resta l' "opacità" - così la definisce il grande avvocato e giurista Guido Rossi - con cui l' intera vicenda è stata trattata. «Al fondo c' è una questione di governance e di sensibilità», conclude Martelli. La cattedrale laica è stata trattata come se fosse un affare privato o una fabbrichetta e non un' istituzione che appartiene a tutti. Gli errori che hanno reso inestricabile il caso e che hanno cementato l' alleanza tra le maestranze scaligere e i cittadini, infastiditi dalla nascita di un nuovo "salotto dei padroni", dipendono da questo deficit politico-culturale. Sulla Scala ci si divide tradizionalmente, come tra Inter e Milan, si tratti della ristrutturazione, del cartellone o delle esecuzioni: ma il suo valore identitario e la sua appartenenza collettiva sono fuori discussione. C' è gran dibattito in città. Il futuro richiede un recupero di eccellenza artistica, un rinnovamento del pubblico (il 70% degli spettatori abitano entro un chilometro dal Duomo), una ricostruzione del clima interno. Ma soprattutto passa attraverso il recupero di una capacità di visione e di una sensibilità che gli attuali amministratori, trattando come cosa propria l' istituzione più nota d' Italia e più cara ai milanesi, hanno perduto per strada.



































































































































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