e attorno
Abbado seduce Lucerna con Strauss e Wagner
Il direttore ha inaugurato il Festival
Girardi Enrico
LUCERNA - Abbado con l' Orchestra del Festival, Harding con la Mahler, Welser Möst con Cleveland, Barenboim con la Staatskapelle di Berlino, Jansons con la Radio Bavarese, Boulez con l' Ensemble Intercontemporain, Haitink con Dresda, Rattle coi Berliner, Temirkanov con Pietroburgo, Gergiev coi Wiener, Herreweghe e ancora Jansons con Amsterdam, Mehta coi Münchner e infine Muti con la Filarmonica della Scala. Si aggiungano a tali appuntamenti sinfonici i recital solistici, i concerti da camera e le serate con gli ensemble barocchi ed ecco spiegato perché si debba attribuire al Festival di Lucerna l' indiscusso primato come rassegna di musica strumentale. Un Festival che riunisce tutto il meglio (o quasi) del sinfonismo mondiale e che ieri sera ha tagliato il nastro inaugurale con il primo dei tre programmi impaginati da Claudio Abbado. Come l' anno scorso, il direttore milanese ha diretto una compagine che si forma e si scioglie da un' estate con l' altra mediante la «collazione» di giovani professori della Mahler Chamber Orchestra, di prime parti e leggii dei Berliner Philharmoniker e altre orchestre di livello (quest' anno anche due violini scaligeri e uno del Maggio Fiorentino), nonché di cameristi e solisti di chiara fama. A ben vedere è operazione più rischiosa di quanto non sembri, poiché priva per definizione di quella consuetudine a suonare gomito a gomito che dona alle orchestre la necessaria coesione e un' identità precisa. Né sembrava scontato che si ripetesse lo spirito (una palpabile miscela di entusiasmo, voglia di far musica insieme, stima reciproca, unità di intenti) che l' anno scorso aveva animato e reso indimenticabile l' esecuzione della Sinfonia n.2 di Mahler, ovvero l' atto di rinascita dell' Orchestra del Festival di Lucerna dai tempi di Toscanini. Ma già con le prime note degli Ultimi Quattro Lieder di Richard Strauss ogni dubbio è fugato. C' è un velluto sonoro, una «gentilezza» nel porgerlo che sembra attingere linfa da un crepuscolarismo tutt' altro che morboso, da un senso di abbandono e tenerezza lirica che è già oltre le passioni e i tumulti. A definirlo contribuisce certo in modo determinante la vocalità del soprano americano Renée Fleming, che predilige per l' appunto le tinte pastello e che Abbado asseconda con una docilità che non si riesce a definire altrimenti che «affettuosa». Poi c' è Tristano e Isotta, il secondo atto del capolavoro wagneriano. È quello in cui si trovano in giusto equilibrio i due motivi dominanti del dramma: il tema leggendario dell' amore assoluto (simboleggiato dall' inno alla notte) e quello cavalleresco del doloroso rapporto tra il codice d' onore - si potrebbe dire il senso del dovere - e il Mitleid, la pietà compassionevole. Si può giocare sulle analogie o sui contrasti. Abbado affronta entrambi con una energia travolgente, ma senza compromettere mai i delicati equilibri tra il declamato vocale e la gigantesca orchestra (mai sentito un Tristano con 18+18+16+16+10 archi). Il suono è ricercatissimo e di una trasparenza inversamente proporzionale al volume: si sente tutto. Ed è un' esecuzione meravigliosa, struggente, appassionante. E poco conta se accanto a una Violeta Urmana eccezionale (conserva il timbro da contralto ma con estensione da soprano) c' è John Treleaven, un Tristano perfetto nei declamati a pieni polmoni ma in difficoltà nelle mezzevoci. Molto bene poi la Brangäne di Mihoko Fujimura, il Kurwenal di Peter Brechbühler e soprattutto il Marke di René Pape, che canta il monologo più bello di tutta l' opera. Il trionfo è dunque meritatissimo. Enrico Girardi