Muti lascia la Scala: impossibile continuare a lavorare
di Oreste Pivetta
Dopo Fontana, Muti. Dopo il sovrintendente, il direttore d'orchestra. Piano piano si va allo zero. Si attende l'addio del sovrintendente-bis, Mauro Meli. Non è detto che il consiglio di amministrazione non segua l'esempio, per dignità, dopo aver offeso Milano e la Scala. Finora Riccardo Muti aveva manifestato la sua stanchezza disertando le prove. Tanto che a un certo punto s'era diffusa la voce di una sua lettera ormai sul tavolo di Albertini, sindaco e presidente della fondazione. Voce presto smentita. Ieri la lettera c'era davvero.
Con la seguente dichiarazione: «È una scelta obbligata, malgrado le
attestazioni di stima espresse nei miei confronti dal consiglio di
amministrazione, l'ostilità manifestata in modo così plateale da persone con le quali ho lavorato per quasi vent'anni rende davvero impossibile proseguire un rapporto di collaborazione che dovrebbe essere fondato sull'armonia e sulla fiducia. Fare musica insieme non è soltanto un lavoro di gruppo, richiede, nella condivisione, stima, passione e intesa; sentimenti che ho creduto essere la costante di questi vent'anni di lavoro al Teatro alla Scala». È tutto. La responsabilità sarebbe dell'orchestra.
L'ultimo colpo però è venuto dal consiglio di amministrazione che l'altro giorno (venerdì) aveva invitato tutti a riprendere il lavoro e il maestro Muti a dirigere i concerti della Filarmonica, l'”Otello”e alcune opere dell'anno mozartiano. Questa era la condizione per la ripresa di una trattativa. Quasi un ultimatum. Muti s'è sentito tirato per il bavero, allo scoperto, ha declinato l'invito, così il prossimo consiglio di amministrazione (probabilmente domani sera) dovrà decidere se procedere rinnovando gli incarichi o addirittura sciogliere se stesso. Ovviamente dopo le dimissioni, è stata una gara a rincorrere Muti. Da Meli triste e amareggiato (le dimissioni? «risposta inevitabile all'attacco subìto») ai sindacati, dal ministro Urbani ai sindaci di Piacenza e Ravenna, dal sindaco Albertini regista del clamoroso pasticcio, a parlamentari vari. Con toni di stima, ovviamente, ma senza il calore della sincerità. Sarà malizia, ma viene da pensare che alla fine molti avessero ormai capito che la storia di Muti alla Scala era al termine e che, a cuor leggero, si dovesse cominciare a pensare al futuro.
Di anni, dentro il teatro del Piermarini, Riccardo Muti ne ha trascorsi tanti. Ne sono passati ventiquattro dal suo debutto come direttore d'orchestra: era il 1981 e diresse le “Nozze di Figaro” Ne sono trascorsi diciannove dal giorno in cui ricevette l'incarico della direzione musicale. Diciannove stagioni, tra Verdi, Wagner, Mozart, un bel repertorio gluckiano, Rossini e l'ultimo Salieri. Di trionfo in trionfo, mai un fischio per il maestro, che si dedicò anche alla costruzione di un'Orchestra Filarmonica della Scala e a gloriose tournèe in tutto al mondo, celeberrime e apprezzatissime quelle in Giappone, ben quattro, l'ultima nel 2003, dopo la quale Muti se ne tornò ponendo la famosa alternativa: o io o Fontana. Sosteneva che il sovrintendente non era all'altezza del primo teatro lirico al mondo. Al contrario ovviamente deldirettore d'orchestra. Tutto si giustificò in seguito sull'onda di quella disistima.
Fontana ha trascinato dietro di sè Muti. Muti è riuscito nella clamorosa impresa di inimicarsi una orchestra che gli era amica e devota e a schierarla compatta al fianco di Fontana. Naturalmente, l'antipatia tra i due, che risale ai primi giorni della collaborazione, quindici anni fa, è solo un dettaglio in quello che si può definire «una brutale lotta di potere» (parole di Albertini), un colossale groviglio, una ripetuta esibizione d'insipienza. Le tappe sono note. Sta di fatto che chi avrebbe dovuto, e cioè un consiglio d'amministrazione targato Mediaset-Forza Italia, non ha saputo nell'ordine mediare tra Fontana e Muti, disegnare una strategia culturale, immaginare il ruolo della Scala nel sistema teatrale milanese e italiano (una delle ragioni della crisi sta alla Bicocca, in
quel teatro dell'Arcimboldi che nessuno vuole più e di cui nessuno più sa che fare), discutere con le "masse scaligere" e quindi con i sindacati, costruire scelte condivise (anche con la città che è l'inevitabile retroterra anche di un teatro "mondiale" come la Scala). E infine (ma forse non basta) capire che i tempi corrono e non siamo più ai tempi della Scala di Ghiringhelli, Badini, Siciliani, quando bastava quel nome... Al punto che, dopo tanti fragori, il compito di ascoltare e indicare una soluzione è passato al prefetto Ferrante, ottimo funzionario, colto e appassionato, bravo mediatore (come aveva dimostrato con tranvieri e taxisti), sorpreso in contropiede dal passo ultimo di Muti.
Da che cosa si ricomincia adesso? Si sarebbe dovuto ricominciare da Mauro Meli, se non che il nuovo sovrintendente s'era dichiarato "l'attendente di Muti" e adesso si ritrova senza padrini e senza generali e aveva scelto per il proprio esordio da amministratore di presentarsi con le liste delle promozioni e degli aumenti salariali, ben schedati per sigla sindacale.
Incredibile. Neppure a Valletta, alla Fiat, alla lunga era andata bene. Meli è riuscito in un amen a cancellare ogni possibilità di dialogo con gli orchestrali, con i coristi, con gli amministrativi, eccetera, eccetera.
Forse nel consiglio di amministrazione si sta già pensando al suo
sostituto, insieme con i sostituti di Muti e di un direttore artistico che non esiste da tempo.
I direttori possibili sono tanti. Chi potrebbe dirigere è Riccardo Chailly, che ha contratti con l'orchestra Verdi e con Lipsia (che si possono chiudere) e che abita già a Milano. Grande direttore e d'esperienza. Segue Antonio Pappano, italo inglese, che dall'ottobre prossimo dirigerà Santa Cecilia. Infine un altro giovane, quarantenne, dal nome importante: Abbado,
cioè Roberto Abbado, nipote di Claudio, figlio di Marcello (che fu
direttore del Conservatorio di Milano). La scelta di Roberto Abbado sarebbe coraggiosa, probabilmente poco costosa, la prova davvero che la Scala crede ancora alla cultura e sa anche rinnovarsi.
Difficile coprire gli altri posti. Qualcuno ha considerato Cesare Mazzonis, che ha più di settant'anni, è in pensione, ha una bella casa vicino a Firenze, all'Impruneta, collabora con il Maggio. Qualcun altro s'è spinto fino a Parigi, scomodando Gerard Mortier, già direttore del festival di Salisburgo, all'Opera di Parigi, uno dei manager culturali più potenti d'Europa. Chi vuol restare in Italia, può citare, alla rinfusa sovrintendenti e direttori di altri teatri, da Tangucci a Messinis, da Lanza Tomasi a Segalini. C'è chi resta a Milano e pensa a Sergio Escobar, ora al Piccolo teatro, già alla Scala con Badini. C'è infine chi, affascinato dagli affari, amerebbe un sovrintendente finanziere: cioè Francesco Micheli. Come pianista è in gara con Confalonieri.