POLLINI NELLA STAMPA

La Repubblica
17 settembre 2006

Claudio Abbado  e Maurizio Pollini


L'articolo di Leonetta Bentivoglio






















 



La Repubblica, 17 settembre 2006

Geni ossessivi

l' incontro

Ha un pudore caparbio e resistente a tutto: alle conferme, ai trionfi, all' adorazione della gente. A ogni concerto pare ritrarsi fisicamente dagli applausi. è un musicista così grande che se non fosse tanto schivo della sua vita si saprebbe tutto. Invece si sa poco o niente Si dice che è un pianista razionale, un architetto di strutture logiche 'Eppure', spiega, 'questo è un cliché in cui non mi riconosco. Io punto soprattutto a cose che possano davvero darci gioia' Ieri come oggi, conta diffondere la musica con gesti consapevoli e coraggiosi Contro il sistema consumistico che domina il mondo e la politica delle case discografiche

LEONETTA BENTIVOGLIO

MILANO m usica nel cortile antico, in una piccola via del centro, a pochi minuti da Piazza Duomo. Sinuose statue di marmo, edera rampicante sui muri, finestre di linea settecentesca. Risuona la magia del tocco sul pianoforte, delicato ma deciso, d' ineffabile pienezza e taglio netto, adamantino. Milano è anche questo: sentir suonare Maurizio Pollini dal cortile su cui s' affaccia l' appartamento in cui vive. Cogliere un suo pensiero musicale nella fase dello studio quotidiano, carpire frammenti del suo mondo sonoro. Lo ha scritto la poetessa Patrizia Valduga, parlando delle gioie che può dare la sua città: «Posso passare sotto le sue finestre e sospirare quanto mi pare». Sali un piano di scale e Pollini apre la porta. è più minuto di come appare nei concerti, quando lo Steinway lustro e imponente come un bestione mitologico plasma una sorta di prolungamento del suo corpo. Esprime un vago senso d' astrazione. Difficile capire cosa stia pensando, qual è il suo umore, il suo fantasticare e il suo disporsi all' intervista. «Anni fa un giornalista inglese, affranto, mi disse: parlare con lei è come cavare sangue da una pietra», confesserà più tardi. Ha un pudore caparbio e resistente a tutto: alle conferme, ai trionfi, all' adorazione della gente. Lo si percepisce quando suona in scena. A ogni concerto pare ritrarsi fisicamente dagli applausi, come se il successo lo prendesse sempre di sorpresa. è un musicista così grande che se non fosse tanto schivo della sua vita si saprebbe tutto: amori, gusti, predilezioni e debolezze. Invece di lui si sa poco o niente, ogni accenno a zone personali è bandito. Ma la presenza di sua moglie Marilisa (per una volta va detto) sembra scaldarlo e dare concretezza alle sue giornate. Marilisa Pollini è una donna generosa e solare, di inesauribile energia e vitalità. Maurizio l' ha conosciuta a undici anni, durante una «lezione di armonia». L' ha vista e non l' ha più lasciata: sono inseparabili. Anche lei suonava il pianoforte, ed è pianista pure Daniele, loro figlio, nato nel '78 e formato all' Accademia di Imola. Ha già varie conferme al suo attivo (ora sta per incidere Recitativo oscuro di Sciarrino per pianoforte e orchestra) ed è molto dotato per la composizione. Vista all' interno, la casa di Pollini è sobria ed essenziale. Ordine, idee, memorie, sentimenti. Risaltano alle pareti i disegni del padre, Gino Pollini, architetto fondatore del razionalismo italiano insieme a Luigi Figini, col quale realizzò la fabbrica Olivetti di Ivrea. Sui tavoli dello studio spiccano le sculture di Fausto Melotti, esponente di punta dell' astrattismo del Novecento e zio del pianista. Sua sorella Renata Melotti, madre di Maurizio, aveva studiato canto e pianoforte, e anche Fausto, prima di diventare scultore, era avviato a una carriera di pianista. «Sono stati mio padre e mio zio a guidarmi nello spirito del contemporaneo», ricorda Pollini. «Una delle eredità più forti che mi ha trasmesso la mia famiglia è stata la massima apertura verso tutte le espressioni nuove. Arti figurative e musica». E anche la letteratura: «Mi piace leggere, mi tuffo in un autore e non ne esco, sprofondo nei testi con metodo. Ho letto l' intera Comédie Humaine in francese, poi tutto Proust, poi Shakespeare in inglese. Una decina d' anni fa, quando mio figlio cominciò il greco, lessi tutto il teatro greco in greco antico. Per mesi ci siamo contesi il Rocci, il dizionario greco-italiano. Ho anche studiato tutte e duecento le cantate di Bach. Non dico basta se non ho finito». Ossessivo lo è fin da piccolo. Sempre il più bravo, il più pieno di talento. Pervicace, studioso, radicale. Ha sei anni quando il suo maestro, Carlo Lonati, ne riconosce le qualità formidabili. Ne ha dieci, nel '52, quando suona in pubblico per la prima volta, e dal '55 il suo maestro è Carlo Vidusso. A 18 anni, nel 1960, vince il Concorso Chopin di Varsavia. Si presenta con l' integrale degli Studi di Chopin, op. 10 e op. 25: impresa pazzesca, riservata ai massimi virtuosi. Pollini che al concorso, per obbligo di regolamento, ne presenta "solo" quattro, fa dire all' esperto di pianismo Pietro Rattalino: «Quel ragazzo o diventerà il più grande pianista del mondo o finirà in manicomio». Dopo la vittoria, con coraggio da leone, si isola in una lunga fase di ricerca, evitando le sirene del rapido successo e la prevedibile etichetta di musicista votato a Chopin. Il ritiro dalle scene dura otto anni: una lezione su cui tanti divi musicali odierni dovrebbero fermarsi a riflettere. Il giovane Pollini cresce e amplia il repertorio. Diventa amico di Rubinstein, studia con Benedetti Michelangeli. Esce dagli anni sabbatici fortificato e maturo: «Suona già meglio di tutti noi», osserva Rubinstein. Si delinea l' immagine di un musicista puro e moderno, di un' integrità assoluta di fronte alla partitura, allergico all' effetto facile e solido nella tenacia delle proprie scelte. Politiche e ideologiche, oltre che musicali. Fin dagli anni '60, quando con Luigi Nono e Claudio Abbado suona nelle fabbriche e in nome di cause quali la pace in Vietnam, Pollini merita il marchio di musicista "politico", tuffato in battaglie civili. Tempi lontani: altro clima, altro fuoco, altri sogni. Ma resta il fatto, dice, che «la musica è già di per sé politica, e questo accade sempre. Ogni scelta musicale lo è. In quegli anni, coi concerti di quartiere a Reggio Emilia, o destinati agli studenti alla Scala quand' era sovrintendente Paolo Grassi, eravamo animati da ideali di giustizia che vedevano nella cultura un patrimonio a disposizione di tutti. Il che resta validissimo. Ieri come oggi, conta diffondere la musica con gesti consapevoli e coraggiosi. Contro il sistema consumistico che oggi domina il mondo. Contro la politica delle case discografiche, sempre più orientata verso il compiacimento del mercato. E se è dimostrato che nonostante tutto la qualità dei progetti validi ha un riscontro, ci vorrebbe una maggiore continuità nelle proposte. Non bastano iniziative isolate». Irrinunciabile, in tale direzione, lo studio della musica contemporanea, che Pollini propone con pervicacia e fede «fin dagli anni Settanta. E non l' ho mai abbandonata, così come non ho mai rinunciato alla grande tradizione, Bach, Beethoven, Schubert, Schumann, Chopin, che nei programmi devono convivere con la modernità. Una volta le composizioni del passato non venivano eseguite, si presentava solo il nuovo. Oggi la situazione sembra quasi capovolta, il che è molto negativo: la sala da concerto non può essere un museo. Chi apprezza un quartetto di Beethoven deve essere in grado di seguire anche la musica di un compositore odierno». Per Pollini, negli ultimi anni, questa necessità di confrontare il nuovo e l' antico, e di disporre musiche diverse al dialogo, o allo scontro, si è riversata in cicli di concerti a cui partecipa come interprete e che firma anche come programmatore, col coinvolgimento di altri musicisti e gruppi. Sono eventi audaci, dove si accostano pezzi che vanno dal Cinquecento al Duemila, e che di volta in volta prendono il nome di "Progetto Pollini". Ne ha curati vari in giro per il mondo, da Salisburgo a New York, da Tokyo a Roma. «Quest' anno», dice, «ho programmato un nuovo ciclo a Vienna, che prevede ancora quattro appuntamenti a novembre e finirà l' anno prossimo. In ogni programma c' è un pezzo di Mozart ed è presente l' avanguardia dell' immediato dopoguerra, ovvero brani di quei compositori che rappresentano un passaggio obbligato verso la musica d' oggi: Boulez, Stockhausen, Nono, Berio, Ligeti, Xenakis, Kurtag... Tanti sono i complessi coinvolti, dal Quartetto Berg al Quartetto Hagen e all' ensemble Wien-Modern. E naturalmente ci sono i magnifici Wiener Philharmoniker». Con la stessa leggendaria formazione Pollini ha appena registrato un disco che uscirà a fine settembre, e include due concerti di Mozart per pianoforte e orchestra, il K 453 e il K 467, dove è impegnato nella duplice veste di solista e direttore. Dice che è stata una fantastica esperienza di lavoro: «I Wiener sono unici al mondo nel loro approccio ai classici viennesi e in particolare a Mozart, mostrandosi sempre miracolosamente capaci di conservare una certa tradizione pur con i cambiamenti generazionali avvenuti nell' orchestra. Gli strumentisti possiedono il senso dello stile mozartiano e hanno una straordinaria duttilità, oltre a una capacità incredibile di seguire il solista. Soprattutto nei concerti con l' orchestra, ma anche nelle sonate, Mozart ha un meraviglioso cantabile, che fa pensare alla voce umana, ad arie d' opera ideali. E i Wiener, abituati a suonare anche nel teatro d' opera, con i cantanti, sanno assecondare meglio di tutti questa caratteristica». Riferisce di coltivare un rapporto di ammirazione e gratitudine verso il suo strumento, «perché sul pianoforte si può fare tutto. Facile suonarlo male. Ci sono strumenti tanto più difficili nell' approccio, come il violino e il corno. Facile anche dirigere male l' orchestra. Però è difficilissimo avere la capacità di farla suonare come si vuole, come fanno solo i direttori più grandi, così come lo è ottenere il suono che si desidera dal pianoforte. E' arduo raggiungere quella raffinatezza che permette di sfruttare in pieno la gamma di possibilità offerta dallo strumento, e questa sfida è l' aspetto più affascinante del mio lavoro». Si è detto spesso che Pollini è un pianista razionale, un architetto di strutture logiche e coerenti, un musicista dal geniale senso della costruzione, grazie al quale la forma, in un luminoso paradosso, diventa al tempo stesso trasparente e visibile: «Eppure quello della razionalità assoluta è un cliché in cui non mi riconosco. L' architettura musicale è un elemento importante, ma non il solo. Inoltre c' è stata un' evoluzione nel mio modo di suonare. Sentendo dischi chopiniani che ho registrato molto tempo fa vi trovo un ritmo molto esatto, in cui il "rubato" è ridotto. Adesso, invece, c' è più libertà nelle mie esecuzioni». Oggi al razionalista Pollini non sfuggono le virtù del cuore: «Quando prendo in mano una partitura o studio un pezzo, io punto innanzitutto alla ricerca di aspetti comunicativi, a cose che davvero possano darci gioia. E' un mio percorso profondo e personale. Non c' è niente da spiegare: non si può oggettivare l' emozione musicale, e questo riguarda sia l' interprete che l' ascoltatore. Ognuno di noi sente un pezzo in modo diverso». Non si può parlare di una lettura oggettiva della partitura? «C' è, certamente, il rispetto dei segni del compositore. Ma al di là di questo conta la prima qualità d' ascolto, la più diretta, immediata e anche selvaggia. Come possiamo sapere se abbiamo compreso il senso di una musica? Dall' emozione che ci procura. E' un criterio soggettivo, eppure è l' unico che funziona veramente».


















































































































































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